martedì 3 luglio 2012

CAT BOAT


AGALJA (2^ parte)
storia di un “cat boat" e di altre barche curiose

Il "Cat Boat" fù tipica barca da lavoro ai tempi della vela, nata ed usata nel delta del Missisipi e nel prospiciente Mar dei Caraibi, poi diffusa un pò ovunque, grazie alle sue ottime doti di affidabilità, robustezza, praticità.
Usata per la pesca ed i piccoli trasporti aveva dimensioni medie sui 30 piedi(9 metri), piùttosto larga (anche più di 3 metri su 9 di lunghezza), con uno specchio di poppa piatto (la parete verticale posteriore piatta), talora dotata a prua di bompresso, per consentire una velatura maggiore e più avanzata, quindi più adatta alla bolina (andatura a risalire il vento).
Armata con una sola vela "aurica" (trapezoidale) priva di boma, ma con un lungo "picco"(antenna superiore orizzontale, utile a sollevare la vela in tutta la sua massima estenzione), che cazzato (tirato sollevandolo) al massimo, le permetteva un notevole sviluppo verticale, quasi triangolare.
Normalmente dotata di una piccola cabina con un paio di cuccette lasciava il maggior spazio al "pozzetto"in poppa, generalmente largo e profondo e perimetralmente protetto da un alto bord, pozzetto in grado di ospitare merci da trasportare, attrezzature, pescato o anche
numerose persone, relativamente comode nella navigazione diurna.
Internamente era spesso dotata di una stufa, utile a riscaldare d’inverno i pescatori che vi passavano la notte, comunque le ore più fredde del primo mattino.
La sua chiglia non era profonda, per consentire la navigazione in acque basse, pressochè fino a riva, ma lunga quanto lo scafo, così da contrastare efficacemente deriva e scarroccio e mantenere meglio la rotta .
Una barca tosta e pesante, ma in grado di viaggiare ad andature più che apprezzabili, grazie al sapiente disegno della parte inferiore dello scafo e sopratutto della grande vela aurica.
Nell'era moderna della vela, a partire da secolo scorso, il Cat Boat divenne barca da diporto e poi d' “epoca", per amatori, diffondendosi dagli USA progressivamente in tutto il mondo, con discreto successo in stretto ambito amatoriale, così che diversi artigiani mastri d'ascia si dedicarono anche in Europa alla sua costruzione.
Sul Lago di Como c'è ad esempio qualche cantiere (Colombo) che propone ancora nel suo catalogo il "Cat Boat", rigorosamente in fasciame di legno...e non è barca che costi poco ! Ma anche altri famosi cantieri Italiani hanno od avevano in catalogo quel tipo particolare di barca, in primis Sciarelli e Sartini.

Di Aglaja e di Cat Boat io sentii parlare, quando ancora non avevo la più pallida idea di cosa apotesse essere, avendo per altro solo vaghe cognizioni sul mondo della vela, seppure mi sentissi fortemente attratto.
Me ne parlò nei lontani anni’70 un amico, che fù poi mio iniziatore e maestro dell’andare a vela: appassionatissimo, lui era dotato di tempo e denaro sufficienti per possedere ed anche in parte usare contemporaneamente diverse barche, tra cabinati e derive. Quando lo conobbi era comproprietario di un 12 metri in quel di Lavagna, aveva un elegante cabinato in legno di oltre 7 metri sul lago Maggiore, poi trasferito sul lago di Como, di fronte a Cernobio, dove acquistò un delizioso pied a terre in una villa residence, con tanto di darsena. Nei primi anni ’80 comprò inoltre uno strano catamarano, vagamente Polinesiano (scafo principale per l’equipaggio e scafo minore a bilanciere, con in mezzo ampio tendalino prendisole), che portò a Menorca, alle Baleari, dove possedeva una bella villa a picco sul mare.
Appassionato velista mi indicò i primi rudimenti e mi consentì le prime esperienze sul suo catamarano menorchegno, ma soprattutto mi indirizzò e consigliò nella mia successiva, inevitabile evoluzione nel mondo della vela.

Le mie prime esperienze come…armatore, sempre da lui guidato, erano banalmente state a livello di gommonauta, macinando per altro svariate miglia intorno all’Isola di Menorca, sul Lago di Como e nel mar Ligure di Levante, abbondantemente coprendo tutta la costa tra Genova e l’Isola Palmaria (ivi incluso un’azzardatissimo passaggio del promontorio di Portofino, da Chiavari a Genova Sturla, andata e ritorno, con mare forza 5 ! Avendo a bordo mio figlio di 10 anni e mio cognato, allora pressochè incapace di nuotare).
Il tutto su di un gommone di 4 metri e 30...

Poi, all’inizio degli anni ’90, acquistai dall’amico il suo primo “Drascombe”, mitico derivone di origine Inglese, nella versione “dubber”, lungo sui 5 metri.
Barca molto tosta e classicamente romantica, anch’essa dotata di vela aurica trapezoidale e di un'altra minima vela attrezzata su di un alberello di poppa (armatura a “Yawl”), vele tipicamente rosse, con l’aggiunta un “drifter”, cioè un fiocco molto leggero a prua, utile per i venti portanti, di colore giallo intenso.

Quando filavo in mare o al lago con quello strano natante e tutte le vele spiegate erano in molti a fermarsi, girarci intorni e fotografarci.
Quella barca fù la mia prima e più importante “palestra” di vela !
Anche perché la portai subito in Sardegna, alle Bocche di Bonifacio, una sorta di Capo Horn del Mediterraneo (non a caso vi ha sede la scuola di vela di Caprera, una delle maggiori al Mondo), dove mi sbizzarii a navigare tra le isolette che fanno ponte con la Corsica (Spargi, Spargiotto, Budelli, Razzoli, la stessa Caprera…).
Quasi sempre in copia con lo stesso cognato di cui sopra (nel frattempo aveva imparato a nuotare), quando non facevo le mie solite chilometriche nuotate lungo costa eravamo in giro, dalla mattina alla sera, a sfidare il vento delle Bocche.
Fù bellissima esperienza, estremamente formativa, dove provammo quasi di tutto, tranne la “scuffia”, ma riuscimmo a disalberare, rientrando di bolina da Caprera verso la nostra base a Porto Pozzo.
Era una bolina larga, per risalire meglio la quale armammo tutte le vele, Drifter incluso ! Ciò che era chiaramente un azzardo, una sfida all’attrezzatura della barca, che filava tesissima, quasi urlando per la scia che lasciavamo ed il vento che ci tagliava di stretto al traverso: eravamo incantati dalla velocità con cui stavamo risalendo vento e mare fortemente increspato quando, improvvisamente, ci fù uno scoppio, come un colpo di cannone, poi improvvisamente la calma quasi totale !
L’albero di legno si era spaccato in due ! L’avevo visto, in una frazione di secondo curvarsi ad arco, ma senza avere il tempo di reagire: ù
mi sarebbe bastato orzare, cioè portare la prua al vento per sventare le vele e scaricare la troppa tensione che gravava sull’attrezzatura. Si era rotta una redancia, cioè un anello di aggancio di in testa d’albero di una sartia (cavo d’acciaio che aiuta l’albero a resistere alle forti sollecitazioni del vento) e l’albero da solo non aveva retto.
Raccogliemmo faticosamente le vele finite in mare ed il troncone d’albero ad esse legato, accendemmo il motorino fuori bordo (che usavamo solo per le emergenze) e rientrammo a casa senza problemi.
Il pomeriggio eravamo subito in giro alla ricerca di un falegname, che trovammo bravissimo, disponibile e veloce in un paesino sopra Porto Pozzo: in pochi minuti ci aggiustò l’albero, incollandone ed imbullonando i due tronconi, con la raccomandazione di non sottoporlo più a così notevoli sollecitazioni !

Dovemmo insistere per pagargli la riparazione !
La mattina dopo eravamo già di nuovo in giro…a far altri danni.
Fù una bellissima esperienza, quella delle Bocche, in occasione della quale sviluppai una notevole sensibilità velistica, arrivai a capire esattamente come funzionava il tutto (o quasi…), in funzione del vento e del mare.
Uno dei miei vezzi divenne quello di spiaggiare la barca, dolcemente sull’abbrivio, arrivando a vela in una qulche cala, sincronizzando perfettamente tutti i movimenti necessari per calare le vele e sollevare la deriva mobile al momento giusto, evitando gli scogli e senza scarrocciare, sulla spinta delle vele ormai ammainate, giungevamo a riva per poi saltare sulla sabbia da prua, a piedi asciutti, con la barca che ancora avanzava sulla spiaggia, per poi tirararla ad arenarvisi stabilmente ed aiutare infine a scendere le signore a bordo, se ci avevano fatto l’onore di essere con noi…Applausi !
Sentivo di meritarli per manovre così ben riuscite.
Circa la presenza delle “signore” essa era spesso condizionata dalla mia eccessiva voglia di navigare e scarsa propensione di ristagnare in spiaggia.
Senza contare il timore di qualche disavventura che sempre le preoccupava.

L’unica classificabile come tale la ebbi purtroppo con mia moglie.
Stavamo uscendo dal lungo fiordo, circa 2 miglia, di Porto Pozzo, quando vidi arrivare da terra, alle nostre spalle, quella che sembrava una vera tempesta !
Neri e bassi nuvoloni avanzavano veloci da terra verso il mare, estremamente minacciosi e preoccupanti ! Poco dopo averli considerati cominciai a sentire l’improvviso sollevarsi di un forte vento teso, che ci spingeva con gran forza verso l’uscita del fiordo, in alto mare. Capii subito che la situazione era pericolosa.

Per fortuna stavamo proprio passando accanto alla parte terminale del fiordo dove avevamo casa, a poche centinaia di metri. Spinsi la barca verso riva il più possibile, finchè la deriva finiì con l’arenarsi sul basso fondale, saltai in acqua, che mi arrivava solo alla vita ed aiutai mia moglie a scendere. Aveva ormai un guado di pochi metri per poi essere a terra e corre a casa, al riparo da aqcuazzone e fulmini che intanto avevano iniziato a precipitare con crescente violenza.
Io allora spinsi la barca verso il centro del fiordo, per liberarla dall’incaglio, ma in quella manovra la deriva mobile si sganciò rimanendo appesa sotto lo scafo, penzolante ed assai più dannosa che utile alla navigazione. Buon ultimo: non avevo il motore perché ad aggiustare e subito mi fù chiaro che in quelle condizioni, anche remando (non parliamo di andare avela !) come avrei voluto fare, non sarei riuscito a guadagnare la caletta subito dietro il capo terminale del fiordo, verso sud, dove avrei potuto facilmente riparare.
L’intensità del vento e della pioggia erano ormai al massimo: la barca era spinta velocemente fuori, verso il largo, ma non vedevo dove perche la pioggia era tale da togliere completamente la visibilità, se non per pochi metri !
Nel frattempo cominciai ad essere sfiorato da decine di altre imbarcazioni, per lo più motoscafi, ma anche qualche grosso “ferro da stiro”, che rientravano a Porto Pozzo fuggendo il fortunale. Fortunatamente tutti mi evitarono, schivandomi all’ultimo metro ! Poi, dopo circa una ventina di minuti, cessò la buriana, improvvisamente come era arrivata, calò il vento, cessò la pioggia, tornò la visibilità.
Così mi resi conto che ero sopravvissuto alla tempesta ma mi trovavo circa un miglio al largo, verso l’isolotto di Saprgiotto. Mi accinsi allora a remare, ma subito capii che non mi sarebbe bastata la vita per rientrare: la deriva sganciata sotto la barca faceva da timone, libero ed incontrollabile, facendola girare inutilmente da tutte le parti, vanificando ogni mio sforzo per rientare verso la costa.
Per fortuna fui presto soccorso da un “ferro da stiro”: un acopia che rientrava capì la mia situazione, e rallentò chiedendomi se avessi bisogno di soccorso.

Così gli buttai una cima per il traino, ma dovettero andare molto adagio, perché la mia barca tendeva a fare vistosamente lo slalom, rischiando così di rovesciarsi se trainata più velocemente.
Mi feci lasciare all’interno del fiordo, in una zona dove avrei potuto trovare aiuto e rimessaggio. A riva, in un metro di fondo, dovetti poi penare per almeno un ora, lavorando prevalentemente in apnea, prima di riuscire a riagganciare il lato libero della deriva nel suo giusto alloggiamento nella scassa dello scafo. Era ormai il tramonto quando riuscii ad alzare le vele e riportarmi nella caletta in testa al fiordo, dove ormeggiai la barca e potei finalmente raggiunere mia moglie a casa, dove era giunta fradicia qualche ora prima.
Non fù quella la sola disavventura con il mio “drascombe”: anni dopo nel Tigulio, mentre rientravamo da Portofino a Chiavari dopo una bellissima veleggiata ed ancor più bella nuotata a Paraggi, con una copia di cugini, ci colse a metà strada la bonaccia: totale assenza di vento. Quella volta avevo il motore, ma non ne volle sapere di partire (io credo che lui sapesse che io, considerandomi velista puro,
mi vergognavo di utilizzarlo e quindi, offeso, scioperava ad oltranza,rifiutandosi di funzionare…). Era per altro un discutibile prodotto di fabbricazione Jugoslava, che faceva parte della dotazione del Drascombe acquistato dal solito amico, ottima la barca, pessimo il motore.
Dopo infiniti tentativi di avviarlo prendemmo in mano i remi, sfruttando anche un debolissimo refolo di vento nel tentativo di raggiungere almeno Zoagli.
Erano ormai le sette passate quando giungemmo sottocosta, senza più riuscire ad avanzare, con la corrente che ci arretrava verso Rapallo.
Da Chiavari mia moglie, che ci aspettava ai bagni comunali, allertata dal nostro ritardo (allora purtroppo non c’erano ancora i cellulari) chiese ad un conoscente che possedeva un potente binocolo da marina se riuscisse a vederci e lui effettivamente identificò le rosse vele del mio Drascombe a circa 3 miglia, dalle parti di Zoagli e ipotizzò anche di venire a soccorrerci con il suo potente Boston Wheler,
piccolo ma tostissimo motoscafo…, ma infine decisero di non farlo, perché io avrei potuto anche offendermi…palesemente noto in zona per il mio forte piglio ed orgoglio marinaresco…
Abbandonati così al nostro destino riuscimmo infine ad arrancare sino alla caletta di Marina degli Ulivi ( a me ben nota per avervi posseduto casa, poi incautamente venduta…), dove potei disturbare un conoscente, alle prese con una cena a base di pesce, che aveva la chiave per azionare l’argano elettrico utile a recuperare la mia barca sul ripido scivolo, che serviva la locale associazione di pescatori, di cui l’anno prima ero sato socio anch’io.
Riuscimmo anche a telefonare a mia moglie, ormai rientrata a casa, che ci recuperò sull’Aurelia soprastante, dove risalimmo scalzi, in costume da bagno, al buio delle nove di sera, io con il maledetto fuoribordo in mano per portarlo a riparare subito, il mattino dopo.
Dalla serie: “l’importante è poi poterle raccontare…”

Come farò nella prossima puntata, soprattutto a proposito di Aglaja, con cui ebbi modo di sperimentare le mie due più maggiori avventure di velista, una delle quali
particolarmente rischiosa.

The lonely dolphin.
























































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