mercoledì 22 giugno 2011

BUSINESS&ADMINISTRATION 2^Parte

Foto di riferimento, risalente ai tempi del racconto (1963)

BUSINESS&ADMINISTRATION 2^ Parte

Tutti quei lavori avevano caratteristiche basilari in comune, ma notevoli differenze sul piano strutturale ed organizzativo.
Tutte le attività, sopratutto le maggiori, facevano preciso riferimento, o per lo meno ci provavano, ai collaudati sistemi di "Marketing" originari USA ( in realtà i primi, almeno sul piano teorico, erano stati gli Inglesi, ma sopratutto gli americani ne avevano dato grandissima applicazione pratica e diffusione).
Perugina e sopratutto Lavazza erano già così abbastanza strutturate, ma c'erano altri decisamente più avanti...

Ricordo che tra i tantissimi colloqui di selezione che cui partecipai, La Standa di Monzino e la Farmaceutica dell'amaro Giuliani.
Alla Standa cercavano allievi direttori per i nuovi Magazzini, in progressiva apertura nell'Italia del crescente "boom economico": fui chiamato a Milano per la selezione finale, che prevedeva tra l'altro il superamento dei test all’Americana per verificare intelligenza, attitudini e carattere, visita medica e colloquio conclusivo. Qualche tempo dopo, per motivi professionali imparai che quei test erano pedissequamente presi, tali e quali, da quelli in uso vent'anni prima presso l'Esercito degli Stati Uniti, che li aveva velocemente messi a punto per selezionare, il più rapidamente possibile, milioni di uomini da destinare ai fronti della Seconda Guerra Modiale, in cui stavano allora entrando.
Fù il test sulla "Personalità" a fregarmi...: anche quello costituito da centinaia di domande, cui occorreva rispondere il più velocemente possibile, d'istinto, quasi senza pensare ! Io notai presto che le stesse domande si ripetevano spesso, più volte, ma usando altri termini...
Le risposte possibili erano solo due: Si o No.
Molte erano domande cui non mi sentivo di rispondere decisamente in un modo piùtosto che nell'altro...per cui mi sembrava logico bilanciare il mio parere anullando un "Si" precedente con un "No" successivo, o viceversa, in una sorta di "somma algebrica"...Chiesi conferma di questa mia interpretazione alla "psicologa" che assisteva al test, che se mi capì rispose comunque che sì, poteva essere...
Io così mi comportai e la mia "personalità" risultò quindi essere ambigua, inaffidabile...contraditoria !
Imparata la lezione, nelle successive occasioni mi guardai bene dal commettere ancora l'errore e riuscii sempre a superare al meglio i test di selezione, anche quelli più evoluti ed aggiornati.

Mi colpì invece l'episodio vissuto alla selezione per propagandisti venditori della Farmaceutica Giuliani. In un prestigioso Hotel di Padova mi trovai davanti un datato signore dallo spiccato accento Americano, che mi chiese assai banalmente dove, potendo scegliere, io avrei posizionato sul banco di ogni farmacia l'espositore dei prodotti Giuliani. Risposi istintivamente: in alto a sinistra, ma senza saper spiegare il perchè. Allora lui mi chiese: se lei fosse in Giappone, dove piazzerebbe l'espositore ? Io, ancora istintivamente risposi: in alto al centro. Ma ancora non riuscii a spiegare il perchè !
Entrambe le risposte erano corrette, oggi potrebbe sembrare una fesseria, ma allora l'argomento rientrava ancora nella tecnica in divenire della"persuasione occulta"...
Lui mi chiarì semplicemente che noi, istintivamente come io avevo fatto, seguiamo le nostre invalse abitudini: nel guardare qualsiasi cosa seguiamo lo schema della "lettura", cui siamo abituati, cioè da sinistra a destra, dall'alto in basso ( per i Giapponesi più semplicemente dall'alto in basso).

Questo aspetto del "Marketing", parolona per me allora ancora carica di mistero, mi affascinò e negli anni successivi mi dedicai con notevole interesse e qualche successo a studi ed approfondimenti in materia,

Invece all’API, Anonima Petroli Italiana, quella delle benzine del “Cavallino alato”, negli anni ’60 in grande allargamento della distribuzione, fui assunto…per sbaglio alla Filiale di Padova.
Come ho già raccontato altrove risposi ad un’inserzione per cui cercavano un amministrativo, un ragioniere…Ma durante il colloquio con il direttore, un signore accorto e navigato dall’occhio lungo, che dopo avermi attentamente ascoltato e considerato, mi sparò a bruciapelo: “ma lei vuole davvero fare il ragioniere?”. Io, disarmato dall'ironia del suo sguardo e dalla perentorietà della domanda, risposi che no, non ne avevo ovviamente intenzione alcuna…
Scoppiò a ridere e mi assunse come commerciale.
L’API era allora un’insignificante Società Petrolifera nel contesto delle “Sette Sorelle” del “Cartello Mondiale”, ma una crescente realtà in Italia, dove era assai coraggiosamente e rocambolescamente nata in quel di Falconara, sul mare, vicino ad Ancona. Si diceva che i due fondatori “compari di merende…”, dovettero ad un certo punto scegliere chi dei due dovesse sacrificarsi andando…in galera…
Fuori rimase Peretti, poi divenuto presidente della Società e Cavaliere del Lavoro !
La Sede generale era a Roma, in via Nazionale, vicino a Villa Borgese ed a via Veneto, dove più volte andai a fare corsi di addestramento tecnico commerciale attinenti caratteristiche, usi ed impego dei Carburanti,ma soprattutto dei Lubrificanti, prodotti assai più complessi e dalle prerogative tecniche assai articolate e diversificate, a seconda degli utilizzi cui sono destinate.
Sui quali, buon ultimo, le Società petrolifere fanno i loro veri grossi guadagni !
La prima volta che arrivai alla Sede Romana notai un fatto assai strano: tutti i dipendenti, nessuno escluso, a partire dagli usceri sino ai più alti dirigenti, esibivano un“Regolo Calcolatore”che si notava palesemente spuntare dal taschino della giacca !
Appena ci fù l’occasione ne chiesi il motivo e mi spiegarono che era una più che … tacita imposizione del Presidente ! Il quale, uomo di cultura presso che elementare, si trovò una volta a chiedere ad un suo Ingeniere in Raffineria un dato che richiedeva calcoli complessi e rimase sbalordito quando il tecnico tirò fuori dal taschino uno strano “righello”, lo manipolò brevemente e subito gli fornì l’esatta risposta !
Volle allora sapere come funzionava, volle impararne l’uso e stabilì che tutti i suoi collaboratori e dipendenti ne fossero dotati ed imparassero ad usarlo.
Anzi, mi consigliò il tecnico che mi raccontava quella cosa, sarà bene che anche lei se lo procuri, impari ad usarlo se già non ne è capace e lo esibisca costantemente, almeno ogni volta che viene a Roma.
Provvidi immediatamente all’acquisto e mi rinfrescai la memoria circa l’uso, che già avevo avuto modo di apprendere a scuola.

L’addestramento “sul campo”era invece lasciato allo “sbaraglio” della mia… inesperienza. A Padova il maturo direttore che mi aveva assunto era già molto malato e purtroppo morì dopo qualche mese. Il vice che prese il suo posto era un untuoso, inaffidabile intrallazzatore, dedito più che altro a sfruttare ogni occasione ai fini del business personale, ma fondamentalmente anche un incapace, un “ququaraquà” di bassa lega, nonostante il titolo d’Ingeniere di cui si fregiava.
Il vecchio direttore che mi aveva assunto aveva disposto un programma di “affiancamenti sul campo” per consentirmi di apprendere progressivamente il mio lavoro, come nella logica. Il ququaraquà che gli era subentrato mi spedì invece allo sbaraglio: marcia o crepa !
Io provai a marciare e qualcosa comunque riuscii ad imparare da solo.
Però mi trovai spesso davanti a clienti preparati dovendo improvvisare argomentazioni commerciali di mio intuito e …fantasia…Mi trovai a frequentare le “Borse Merci” presso le Camere di Commercio delle Provincie a me assegnate senza sapere bene che cosa ci andassi a fare…Mi trovai a dover insegnare ai Gestori delle Stazioni di Servizio ciò che io non avevo mai imparato a fare…
Fù probabilmente anche in seguito a questa sofferta esperienza che, dopo qualche anno nel settore, avevo imparato così bene ogni aspetto del lavoro da essere promosso Capo Ufficio Addestramento presso la Sede di Roma di un'importante multinazionale del Petrolio !

Ma tornando ai primordi in API, esemplare fù quella volta che mi mandarono ad aprire la nuova Stazione di Servizio a Feltre !
Era Gennaio 1963 ed imparai subito a mie spese un “adagio” che recita: “ Se vuoi patire le pene d’inferno, va a Trento d’estate ed a Feltre d’inverno”!
A Feltre la stazione, grande e nuova di pacca, era completamente coperta da un metro di neve e totalmente sprovvista di impianto di riscaldamento…( i progettisti “Romani” dovevano aver considerato che li sarebbe stato un di più, meglio risparmiare…).
Il Gestore, personalmente scelto dal neo direttore ququraquà in base a segnalazione e raccomandazione della locale stazione dei carabinieri (e forse estorcendogli l’obbligo di versargli sottobanco una quota percentuale dei suoi ricavi gestionali…) era un brav’uomo, volonteroso, ma totalmente digiuno di qualsiasi nozione per il lavoro che doveva svolgere. Esattamente come me, che avevo il compito di istruirlo ed avviarlo nella nuova attività !
Io avevo solo 22 anni, ma sapevo anche essere talora “saggio” ed accorto. Misi quindi la questione nei termini: “Senti, tu sei nuovo ed io pure, so poco o nulla di quello che dovrei insegnarti…Non abbiamo che un ‘alternativa: imparare insieme, cercando magari di sbagliare il meno possibile”.
Lui apprezzò la mia sincerità e modestia, anche perché, dovendo “fisicamente”aprire la nuova Stazione bisognava spalare il metro di…ghiaccio che la ricopriva tutta, grande piazzale incluso !
Mi romboccai le maniche (per modo di dire, perchè quando faceva caldo c’erano dodici gradi sottozero…) e mi misi a spalare insieme a lui.
Ci mettemmo una settimana intera: più che spalare dovevamo “picconare” il ghiaccio, frantumandolo prima di poterlo spalar via.
La sera, nonostante il mio fisico gagliardo, arrivavo nell’alberghetto dove alloggiavo distrutto, consumavo una cena calda ed ipercalorica e mi infilavo a letto fino al mattino successivo, quasi rimpiangendo di non aver voluto fare il “ragioniere”…
Quando finalmente arivammo ad “aprire” di fatto le vendite molte cose, anche strettamente di tipo “tecnico” dovetti inventarmele, comunque chiedere telefonicamente lumi, finchè ottenni infine l’invio di una squadra di tecnici montatori ed installatori per chiarirci ciò che non sapevamo né potevamo immaginare.

Dopo questa esperienza ne feci altre significative.
Notevole era il fatto che tutti i “Presidenti” delle compagnie Petrolifere in Italia avessero la Villa a Cortina d’Ampezzo: sembra fosse un “must”! Perciò doveva a Cortina esserci anche una stazione di servizio della stessa Compagnia, perché mai il Presidente avrebbe fatto benzina alla concorrenza…!
A quei tempi Cortina era per pochi fortunati, e di carburanti c’era assai scarso consumo: era perciò problematico mantenere aperta la gestione delle troppe Stazioni apertevi ad uso dei vari “Presidenti”…Occorreva perciò sponsorizzare onerosamente i gestori e nonostante tutto spesso cambiarli.
I Cortinesi avevano infatti il vezzo di essere poco attendibili, avevano un andazzo molto “stagionale”, piantandoti magari in asso per andare a fare il maestro di sci piùttosto che qualcosaltro…
Nella zona di mia competenza c’era Cortina, dove in realtà andavo volentieri, riuscendo a farmi qualche sciata e talora accompagnarmi con la procace figlia di un gestore…Qualche volta dovetti “travestirmi” da Gestore io stesso, perché arrivava il Presidente e non si trovava chi volesse tener aperta la Stazione…

Poi, alla fine del’63 ci fù la tragedia di Longarone: anche lì c’era un distributore ed era ugualmente nella mia zona. Ci passavo quasi sempre andando a Cortina, spesso la sera tardi, per opportunità d’itinerario. E di notte mi fù sempre lugubre, anche prima della tragedia, la visione della diga, la in cima tra le montagne sopra la valle, illuminata dalla pallida luce dei fari, incombente e minacciosa…
A Longarone si diceva, si sapeva che era un rischio…ma non di quella portata che poi ebbe a manifestarsi ! La famiglia del gestore era composta da 11 persone: sopravisse uno soltanto, un figlio che quella sera era a Belluno per trovare la morosa…
Le cisterne del distributore, interrate sino a 3-4 metri e pesanti tonnellate furono poi ritrovate 4 km. a valle !
Non so se l’API fosse poi risarcita, ma quello era un particolare irrilevante nel contesto dell’immane disastro…
Non lo seppi perchè cambiai lavoro, poi Compagnia Petrolifera, non riuscendo a sopportare ulteriormente la disonesta stupidità rancorosa del quaquaraqua che dirigeva la filiale Padovana.
Ma ebbi notevole soddisfazione dopo pochi anni, quando lavoravo con successo per una Società concorrente, di vederlo licenziare in tronco in seguito ad un grosso ammanco contabile ( 80 milioni degli anni’60!) che avvenne nella Filiale di cui lui era responsabile.

La presenza di certe persone, soprattutto se in ruoli di responsabilità,
è normalmente significativa della precaria conduzione manageriale di una Organizzazione: anche quando si è costretti ad assumere chi non vale, perché fortemente raccomandato da chi non si può… eludere..., gli inetti, gli incapaci, i disonesti comunque imposti, devono sempre essere identificati in quanto tali e collocati in grado di non nuocere !



BUSINESS&ADMINISTRATION 1^ Parte


BUSINESS & ADMINISTRATION
Esperienze tra Dilettanti allo sbaraglio
Gli inizi.

("Il lavoro rende liberi", nella foto l'insegna
all'ingresso del Campo di Auschwitz...)

"Arte o mestiere?"
Si domandava retoricamente, ma assai comicamente il protagonista di un divertente film "underground" ottimamente intepretato da Nino Manfredi,"A cavallo della tigre".
Era il 1962, avevo 21anni ed anch'io mi chiedevo:"Arte o mestiere?"
Ma partendo da presupposti diversi: il protagonista del film stava più che altro temporeggiando, avendo in realtà pochissime propensioni a "faticare", qualunque fosse il tipo di fatica...
Io invece ambivo al lavoro ed al guadagno, non temevo l'impegno e la fatica, ma moltissimo la "noia" dei molti ruoli possibili, a partire da quelli che erano impliciti nel mio diploma testè conseguito: fare il "Ragioniere" e...morire per me erano prospettive equivalenti !
Non a caso per ottenere la promozione avevo dovuto promettere al professore di Ragioneria che mai avrei fatto il...Ragioniere...e lui mi promosse anche in considerazione degli miei positivi esiti nelle altre materie, quelle rigorosamente "non professionali".
Non mi mancavano per altro doti naturali ed inclinazioni degne di nota: più di un professore mi caldeggiò l'opportunità che io indirizzassi verso "Architettura", data la mia notevole "mano" per ogni tipo di disegno,
prospettiva, rappresentazione grafica ed elaborazione tecnica.
Io poi "sentivo" che avrei potuto forse riuscire in attività anche molto impegnative e diverse tra di loro: il medico, l'avvocato, l'attore, lo scrittore...: alcuni episodi della mia vita giustificarono poi l'attendibilità di quelle propensioni. Ma le condizioni economiche della mia famiglia stavano palesemente diventando tali da non permettermi alcun supporto ai lunghi studi e/o tirocinnii che quelle ipotesi avrebbero implicato, nè io dimostravo una così forte "passione" per sceglierne una piùttosto che altre, nè la determinazione per fare i sacrifici che sarebbero stati necessari.
A La Spezia, trascinato da un amico, iniziai anche a recitare con la Filodrammatica del Dopolavoro Dipendenti della Marina, ottenendo buoni riscontri. Vi conobbi ed apprezzai anche un tale Giancarlo Giannini, allora agli esordi promettenti.
Ma preferii in definitiva dedicarmi completamente agli sport, diventando anche "campioncino" di livello di nazionale giovanile.
Alla maturità risultai in assoluto il primo in Educazione Fisica, l'unico "Dieci" di tutto l'Istituto, ciò che mi valse, unitamente ad altri meriti ottenuti in campo agonistico, una borsa di studio per l'ISEF di Bologna...
Ma fare il Professore di Ginnastica a quei tempi significava... sopravvivere alla fame o poco più. Per quanto io avessi dimostrate propensioni anche per l'insegnamento oltre che per gli sport (ebbi incarichi e supplenze per le scuole superiori), non c'erano allora prospettive. Vent'anni dopo avrei potuto calcolare tranquillamente di aprire la "mia palestra", fare l'istruttore ben prezzolato di una delle tantissime discipline poi maturate negli usi e "consumi" degli Italiani...unendo così l' "utile" al dilettevole...
Ma nel 1962 ciò era fantascienza !
Così infine mi iscrissi a Statistica, a Padova essendoci il primo biennio che consentiva il relativo "Diploma", una sorta di laurea breve ed iniziai, anzi continuai a "lavorare", barcamenandomi nei vari, episodici e perlopiù precari incarichi "commerciali" che mi capitavano.
Due anni dopo risposi tra l'altro ad un'inserzione di Alitalia e fui selezionato per divenire "Pilota", forse anche grazie alla raccomandazione di un Comandante dei voli internazionali, papà di un mio amico Romano che poi divenne anche lui pilota. Il programma, totalmente sponsorizzato da Alitalia prevedeva 9 mesi di scuola a Fiumicino con vitto, alloggio ed un presalario, seguito a fine corso dall'assunzione come Stewart sui voli di linea, buon stipendio, rimborsi spese, viaggi gratis in giro per il mondo e la opportunità di frequentare tante Hostess, fanciulle perlopiù assai ben attrezzate ! A 23 anni la prospettiva non era male anche data la mia non esaltante situazione !
Ma io allora ero inguaribilmente e masochisticamente inguaiato con una ragazza Padovana, la quale mise subito avanti le sue manine ...artigliate, minacciando il suo inesorabile out out: "o me o l'Alitalia".
Ed io, coglione...pardon "sciocchino", col senno di poi passai diversi anni a pentirmi, a martellarmi...si, proprio lì !
Mi ricredetti solo nel 1969, quando nel ristorante del principale Hotel di Mestre, dove avevo in corso una colazione di lavoro (nel frattempo mi ero avviato ad una buona carriera nel settore Petrolifero), mi sentii battere vigorosamente sulla spalla e girandomi riconobbi Livio, il mio amico Romano, ora Comandante Alitalia come io avrei potuto diventare, col quale ebbi una velocissima "rimpatriata". Durante la quale mi espresse la sua grande delusione per il lavoro che stava facendo. Disse che dopo l'esaltazione iniziale era poi subentrato un frustrante senso di routine..."è come essere autisti di autobus...".

Ma assai prima di tutto questo, dal 1961 in poi, mi trovai invece ad arrabattarmi con quanto mi capitava, facendo infinite esperienze, comunque utili, nei settori ed ambiti più diversi, talora anche "strani"ed estremamente precari.
Oggi posso affermare che fù per me un'importante scuola di vita !

La lunga premessa introduttiva, vuole essere significativa di quanto si dovesse spendere, imparare ed esercitare anche e sopratutto allora, in un mondo che, pur essendo da tempo avviato alla "ricostruzione" postbellica, era ancora fortemente subordinato ad una condizione fondamentalmente rurale, preindustriale ed affatto "consumistica", sopratutto nel Veneto, a quei tempi ancora patria di emigranti, dove allora io vivevo.
In quell'ambito mi trovai, ad esempio, vendere Enciclopedie per Ragazzi: "La vita Meravigliosa", 12 volumi per un totale di circa 40mila lire, pagamento rateale con minimo anticipo di 4milalire…la nostra provvigione. Nostra perchè io ero Capogruppo di un disperato manipolo di Venditori, tra cui il non ancora 18enne mio fratello.
Il nostro "target" erano le famiglie meno abbienti delle "case minime" (l'INAcase) delle periferie di Padova, Vicenza e Verona, per le quali un acquisto come quello rappresentava notevole impegno e sacrificio !
Quarantamila lire erano allora quasi la paga mensile di un operaio !
La tecnica di vendita era ottima e collaudata: suonavamo ai campanelli, "door to door", lasciavamo un volume in visione e ripassavamo il giorno dopo per tentare la conclusione. Statisticamente saltavano fuori due vendite ogni 10 "contatti": ci pagavamo, in quattro che eravamo, la benzina per la Fiat 500 in dotazione, i panini della colazione e qualche spicciolo per le nostre piccole spese.
Il nostro ottimismo era tale che spesso partivamo senza denaro e con scarsa benzina nel serbatoio...Così ci trovammo talora a...succhiare il latte dalle bottiglie poste davanti alle porte degli inquilini INA Casa e la..benzina dai grossi serbatoi delle auto americane dei militari in forza NATO a Vicenza o Verona...La necessità...
Fù comunque esperienza di vita e di lavoro notevolissima, già, alla "americana" (ricordo un emblematico episodio di un film USA in cui il giovanissimo rampollo di un grosso magnate della Finanza viene accompagnato dall'autista, a bordo di un'enorme "limousine", che lo scarica ad un angolo dell Fifth Avenue insieme al suo banchetto da lustrascarpe, per cui si guadagnerà la sua "paghetta"...esentasse facendo lo "ShoeShine").
Noi eravamo più grandicelli, decisamente assai meno dotati, sicuramente assai più "motivati"da necessità specifiche, più che non educative...
Così vendemmo (o ci provammo...) macchine da scrivere, macchine da cucire, cosmetici ecc...ecc..., in un mondo che stava crescendo inesorabilmente se pur lentamente. Io, forse favorito dal mio diploma e della mia immagine più matura e risoluta, dopo essere stato anche sub agente di mio padre per la vendita di Autogrù e semoventi vari, divenni poi sub agente Perugina per l'organizzazione Prodotti da Banco: feci un brevissimo"corso di addestramento sul campo" a Bologna e mi dotarono di un grosso furgone Fiat 1100, pieno di delizie al cioccolato da piazzare sul banco dei Bar Padovani con appositi espositori.
Cavallo di battaglia erano i "Flippers, i magnifici sette" della Perugina, che con gran battage pubblicitario stava allora lanciando sul mercato. Erano tubetti di cartone variopinto contenenti delizie al cioccolato in varie fantasie di gusto.
Poteva sembrare un lavoro facile, ma non era esattamente così: allora quei prodotti erano troppo cari e ricercati per le tasche e la mentalità di gran parte dei potenziali consumatori. C'erano dei bar, anche in città, non parliamo della Provincia, dove non si batteva chiodo perchè, oltre a qualche obrobioso imbevibile caffè, funzionava solo la mescita di "ombrette" e grappini...e dove sfizio episodico poteva essere giusto il "pan biscotto con la soppressa"!
Mi capitò, in qualche...Osteria dove già era presente la concorrenza, Ferrero con i suoi "Mon Cherie", di riuscire a piazzare un espositore di Flippers Perugina: dopo una settimana erano ancora tutti lì !
La titolare rassegnata mi argomentava. " ghe aveo dito mi che i no se saria vendui...I tol solo i Monserì Ferrero, che ghe dentro el liguor...".
E già, nel Veneto iperetilista di allora, senza di alcool non si combinavano affari !
Ed io, vergognosamente astemio, dovetti presto convertirmi o far finta di...
Episodio tipico vissuto qualche anno dopo: sette del mattino, Ponte Priula, statale Treviso-Conegliano-Pordenone. Ai lati dello slargo sulla strada ci sono almeno quattro grosse trattorie-ostarie con bar. Parcheggio tra i tanti mezzi, sopratutto camion e furgoni e mi avvio a quello che sembra il Bar più "pulito", meno datato...
Dentro c'è pieno di autisti, viaggiatori che stanno trincando "ombre", "calici", grappini...Qualcun indulge anche a mangiare pan biscotto, sopressa e ova sode. Mi avvicino al bar e chiedo "Cappuccino e Broche"...Ciò che provoca la caduta del...silenzio: mi guardano, mi squadrano, nessuno osa dir nulla data la mia stazza e struttura, ma è evidente che pensano.."ma donde vien fora sto qua"...Qualcuno esce a vedere dove è parcheggiato il disco volante del Marziano...Il cappuccino che infine mi verrà servito avrà inesorabilmente il sapore di...vino, di segatura e di fondi di caffè bruciato...
La brioche il gusto del legno e la consistenza del gesso...

Ma non ebbi a che fare solo con Perugina.
Nel 1963, disperato per l'assenza di denaro, mi proposi e fui assunto come Ragioniere presso un emergente Autotrasportatore Padovano.
Ma non riuscii a resistere, "claustrofobia"...Dopo tre giorni fuggii alla volta di Milano dove feci il corso e fui nominato Agente di Padova della “Americana Encyclopedia”, assai più facile da pronunciare che da...vendere..., almeno allora, probabilmente non avendo io ancora sviluppate sufficienti doti di perseveranza e determinazione ed essendo ancora tuttavia primordiali le mie "tecniche di vendita".

Con Lavazza invece resistetti più a lungo, facevo i controlli contabili ai magazzini del Veneto Occidentale, con sede presso la Filiale di Padova. Poi, capita la mia indole, mi passarono alle ricerche di mercato. Ma mio padre, anche per allontanarmi da Padova dove insistevo in un diatribato rapporto amoroso...mi chiamò a Genova a lavorare per la filiale Mercedes da lui in quel periodo gestita.

Ma il mio "cuore", era rimesto a Padova, insieme alla "testa"...
Ed a Padova avevo in "stand by" un importante contatto per tornare a lavorare nel settore petrolifero, contatto che stava lentamente maturando.
Già, perchè nel frattempo avevo anche lavorato come commerciale all'API, quella della benzina col "Cavallino che vola" e quel settore, il petrolifero, mi aveva particolarmente coinvolto.
Altra notevole esperienza da dilettante tra i dilettanti, tutti allo sbaraglio !
Come argomenterò nel prossimo racconto.

The lonely dolphin.




domenica 12 giugno 2011

MORFINOMANE A 12 ANNI !


MORFINOMANE A DODICI ANNI

Si, lo sono stato davvero, sia pure per un breve periodo.
Tutto è forse iniziato quando sui sette anni mi diagnosticarono le "ghiandole ai bronchi" (sorta di adenomi precancerosi). Da allora in poi continuai ad avere sempre più spesso ed in maniera sempre più grave, bronchiti e broncopolmoniti. Mi sottoposero a tutte le possibili visite specialistiche, diventai forse radioattivo per le innumerevoli radiografie cui fui sottoposto (unico metodo allora disponibile e totalmente inadeguato a rilevare la patologia che io in realtà avevo).
Passai settimane e mesi a letto e finii anche a Villa Serena, nel 1951 moderna ed attrezzata clinica privata, allora proprietà dei "baroni" della medicina Genovese. Feci un'interminabile serie di noiosissime inalazioni per i bronchi...ma continuavo lentamente a peggiorare.
Fortunatamente alternando periodi di vita quasi normale, in cui potevo perfino scalmanarmi a giocare al pallone, nuotare e fare il capobanda di un manipolo di decenni, ai "bagni del Lido", contrapposto ad altre tribù coetanee. Ma in altri periodi mi toccava, nel migliore dei casi, guardare dalla finestra chiusa di casa i miei amici che giocavano all'aperto.
Passavo così molto tempo a leggere (fortunatamente non c'era la televisione), non solo fumetti, gli immancabili album di Topolino
ma anche tanti libri che mi regalava mio padre !
Lessi tutto Verne, Salgari e tante altre cose, per non parlare dei 10 volumi dell'Enciclopedia per ragazzi di Mondadori, che mi fù compagna inseparabile dagli 8 ai 15 anni ed anche oltre.
E "lavorai" molto con il "Meccano", gioco estremamente educativo e creativo per i ragazzi, oggi purtroppo sparito e non adeguatamente rimpiazzato.
Giocavo tantissimo con i soldatini : indiani e cowboys, militari dei vari eserciti recenti, cavalieri...ecc..., ne avevo una ampia collezione, che utilizzavo come "regista" inventando trame di combattimento o replicando ciò che avevo letto o visto al cinema.
Quei periodi di malattia mi aiutarono molto a sviluppare fantasia, creatività e cultura extrascolastica.

Ma continuavo a peggiorare: un paio di volte, ad 11 e 12 anni, in occasione di gravi "congestioni polmonari", ebbi anche la sensazione di essere vicino a morire...
Sempre più spesso avevo attacchi di tosse ed all'inizio del 1953 ebbi
anche un forte emotisi: sputai molto sangue mentre tossivo !
Il dottor Vittone che ci seguiva da anni era assai più esoso che bravo, aveva già chiesto un infinità di "consulti", ma senza arrivare da nessuna parte.
Mio padre allora fortunatamente decise di agire autonomamente e mi portò subito dal dott.Ferraris, primario del reparto delle malattie polmonari gravi,TBC e tumori, all'ospedale specialistico in Genova, dove era stato già ricoverato suo fratello, Piero risultato tubercoloso appena ventenne, alla visita di leva.
Il dott. Attilio Ferraris mi visitò nel suo studio, bello ed attrezzato, sopra piazza Corvetto, accanto alla collinetta parco dellaVilletta Di Negro . Era Sabato pomeriggio!
Era un uomo piacevole, sui 40 anni, alto, tipo James Stewart, dai modi molto appropriati e coinvolgenti ed emanava un forte carisma.
In seguito verificai come mi bastasse la sua presenza per sentirmi già meglio !
Mi fece una lunga visita accuratissima, radiografia inclusa, dopodichè mi rimandò all'indomani, Domenica mattina, in ospedale per una broncoscopia.
La mia fortuna, per cui oggi posso scrivere questo racconto, è che lui fosse il primo in Italia ad utilizzare questo sistema d'indagine, che aveva da poco appreso direttamente dal prof. Metras, l'inventore di quella tecnica, a Marsiglia.

Allora la broncoscopia si faceva con un grosso tubo rigido, di metallo, che, in anestesia locale veniva introdotto attraverso la gola fino ai bronchi.
Io arrivai tranquillizzato dai miei genitori su ciò che mi toccava e così feci la mia prima iniezione di morfina... che fù un'esperienza meravigliosa: mi sentivo solo vagamente stordito, ma provavo un'enorme sensazione di benessere, di pace, di felicità; vedevo tutto rosa ed era bello perfino lo squallido e triste luogo in qui mi trovavo !
Il dott. Ferraris fù bravissimo nel coinvolgermi, invitandomi perfino, dopo che lui mi aveva mostrato come, a spruzzarmi da solo l'etere anestetizzante in gola.
Ciònonostante l'introduzione del grosso tubo in trachea non fù affatto piacevole, nè la sua successiva permanenza per il lunghissimo quarto d'ora in cui lui esplorò, verificò e perfino tentò una soluzione.
Avevo un "adenoma" bronchiale, un tumore stimato "benigno" (ed infine poi confermato tale), che occludeva il bronco sinistro.
Aveva forma e dmensione una ciliegia, il cui picciolo restava ancorato alla parete interna del bronco, vibrando quando entrava l'aria che cercava di arrivare ai polmoni, sibilando come la pallina nel fischietto arbitrale ed ormai sanguinando per lo stress delle continue vibrazioni.

Il dott. Ferraris tentò, già in quella prima broncoscopia, di staccare quel peduncolo incidendone delicatamente il "picciolo", ma appena avicinava il bisturi si esasperava il sanguinamento, con pericolo di emoragia !
Gli strumenti di cui allora disponeva e che poteva introdurre e manovrare all'interno del tubo, erano primordiali e non prevedevano affatto cauterizzatore per arrestare emoragie, nè l'aspiratore per riassorbirle.
Comunque ci riprovò ancora, nei giorni, nelle settimane successive, molte volte, tentando approcci e tecniche diverse, ma senza esito: sempre si palesava il rischio emoragico.

Fù così che io mi sottoposi ad almeno una dozzina di broncoscopie ed arrivai al punto che non vedevo l'ora che me le facessero !
Perchè nonostante il grosso fastidio del tubo in gola, in trachea, nel bronco, nonostante poi dovessi rimanere a lungo, per delle ore con la gola dolorante ed irritata, incapace di parlare ed ingoiare nulla che non fosse liquido...tutto questo era regolarmente preceduto dall'inezione stupefacente, la morfina che mi faceva sognare e vivere il Paradiso !
E quando cessava il suo effetto, che aveva durata sempre più breve, mi sentivo stralunato, con una brutta sensazione di manchevolezza generale, dissociato ed infelice. Sicuramente stavo diventando morfinomane !
Mi resi chiaramente conto di ciò che mi era capitato due o tre anni dopo, quando al cinema vidi "L'uomo dal braccio d'oro", famoso film sugli effetti della droga, intepretato da Sinatra e da Kim Novak.
La vicenda mi coinvolse moltissimo e la recepii in ogni dettaglio proprio in funzione della mia trascorsa...morfinomania broncoscopica...

Infine il dott. Ferraris capì che oltre la diagnosi non riusciva, e che sarebbe convenuto portarmi a Marsiglia, dal prof. Metras, l'inventore della tecnica, che ci provasse lui...e che in ogni caso era in grado di sottopormi al meglio ad un tradizionale intervento chirurgico per asportare l'adenoma, intervento di portata comunque notevole.
Mio padre non ebbe dubbi sull'opportunità, nonostante l'entità della spesa e fù così che partimmo alla volta di Marsiglia in quattro, il dott. Ferraris, i miei genitori ed io.

La Clinique Sant Julien era appena prima, Marsiglia, sulla campagna degradante verso il mare assai vicino, accanto al villaggio omonimo, che aveva dato i natali al noto comico francese Fernandel, famoso interprete di Don Camillo. Che ebbi occasione di incontrare nel ristorante albergo gestito dai suoi parenti, dove soggiornai alcuni giorni prima di essere ammesso alla Clinique, in compagnia dei miei genitori e del dott.Ferraris.
In quei due-tre giorni, in attesa del grave intervento (ma io credevo si trattasse solo di un’ennesima broncoscopia, più lunga ed importante per cui sarei stato addormentato) i miei mi organizzarono ogni possibile distrazione: noleggiarono un motoscafo con cui andammo verso il largo ad aggirare l’isolotto dello Chateau d’If, il grande scoglio su cui si erge maestosa e lugubre l’alta rocca in cui fù ambientata la prigionia del Conte di Montecristo, in compagnia dell’Abate Faria; mi portarono nel cinema principale della Rue Canebierre a vedere, per la prima volta il “Cinemascope”: la Tunique, la Tunica in Francese.
Con mia mamma andammo anche ad un grande circo a due piste, il più grande spettacolo che avessi mai visto, dove purtroppo assistemmo anche ad un terribile incidente: una trapezista che si esibiva roteando velocissima, appesa coi denti a 10 metri da terra ebbe rotto l’anello di sostegno che teneva in bocca e precipitò schiantandosi sulla sottostante pista di ghiaccio, proprio lì davanti a noi !
Da allora ogni volta che vedo ripetersi quel numero, classico dello spettacolo circense, rivedo coi brividi quella terribile scena.
Con la quale ancora negli occhi il giorno dopo entrai in clinica per essere operato.

Il prof. Metras, che assomigliava un po’ a Napoleone, tentò a sua volta con la broncoscopia, anche lui senza esito.
Così mi operò, assistito dal dott. Ferraris: l’intervento durò oltre 6 ore ed ebbe ottimo esito e fù poi anche pubblicato, con foto a colori, sulle riviste mediche specializzate, come interessante caso clinico.
Io mi ero addormentato al “sei” della conta per l’anestesia e mi risvegliai il giorno dopo, estremamente contrariato e sofferente: avevo un cannello nel naso (ossigeno), una siringa nel braccio (flebo), e due tubi di drenaggio che mi penetravano il torace, davanti e didietro.
Così seppi che mi avevano un po’ squartato (ma senza ledere le mie giovani e divaricabili costole), per cui avevo una cucitura di 36 punti lunghi sul lato sinistro del costato, fino alla schiena.
Molto meglio le broncoscopie, e la...morfina...!

Ma poi passò tutto, anche la cosa più brutta, gli attimi di intenso dolore quando mi estrassero i tubi di drenaggio.
Ed arrivò anche una fisioterapista molto severa a farmi fare ginnastica per evitare che io rimanessi con la spalla sinistra disassata, visto che la trattenevo innaturalmente per paura del dolore.
Le prime soddisfazioni furono quando mi misurarono con lo spirometro la capacità polmonare, recuperata alla grande; e sopratutto il poter di nuovo respirare a pieni polmoni, sentir l’aria scendere fino in fondo, dappertutto !
Ricordo le prime passegiate con mia madre, appena fuori, negli orti e giardini che circondavano la villa ed io che mi inebbriavo letteralmente con tutti quei profumi, tipicamente mediterranei e primaverili, respirandoli a pieni polmoni. A "pieni" polmoni !
Rimasi là per circa un mese ed alla fine ne venni via con l’orgoglio di portarmi da solo la valigia.

Quell’estate già ricominciai a nuotare regolarmente e l’anno dopo iniziavo l’agonismo ottenendo presto risultati notevoli.
Da allora infatti mi dedicai moltissimo agli sports, con esiti agonistici di ottimo livello in Atletica e nel Nuoto: dovevo rifarmi dell'immobilità che da bambino, per lunghi mesi e durante diversi anni, la malattia mi aveva causato.

Nel 1965, a 24 anni, vinsi il Campionato Italiano di Nuoto Salvamento.
Il mio record di Apnea passiva è di 4 minuti (1972), quello di Apnea attiva è di 75 metri (3 vasche) in 2 minuti e 15’.
Fin dopo i 60 anni scendevo regolarmente in apnea, senza pinne e con i soli occhialini da nuoto ad abbracciare il Cristo degli abissi a San Fruttuoso, a 18 metri di profondità, circondato da increduli subacquei, superattrezzati di mute, maschere, autorespiratori e rpofondimetri...

Questa è stata la mia rivincita per aver rischiato di morire a 12 anni, e poi di diventare...morfinomane…

the lonely dolphin

venerdì 10 giugno 2011

IL REBUS E LA SFINGE


IL REBUS E LA SFINGE
Esperienze di psicanalisi classica Fruediana
(nella foto: Sigmund Freud))

Il mio interesse per la Psicanalisi iniziò probabilmente come molti altri, in conseguenza di una curiosità culturale ed intellettuale molto ampia e variegata, già iniziata con l'adoloscenza.
Cui seguì poi una specifica attenzione, un forte interesse solo in parte giustificato dalla pur fondamentale importanza di Sigmund Freud tra i grandi innovatori del pensiero moderno: Darwin, con la sua "evoluzione", Einstein con la "relatività"(assai più difficile da cogliere) ed appunto Freud con la "psicoanalisi". Tre autori fondamentali, cui dedicai molto tempo ed attenzione nelle mie letture, sopratutto dopo i 20 anni, traendone conseguenze fondamentali per una corretta visione del mondo nell'universo e del loro divenire.
Ma il mio interesse per la psicoanalisi Freudiana aumentò sicuramente in misura della mia crescente consapevolezza di...avere io dei "problemi"...
Problemi che si manifestavano talora in comportamenti strani, quasi coatti, che non riuscivo o faticavo ad evitare; in ricorrenti fissazioni mentali; in forme inspiegabili di autolesionismo; in sogni ed incubi ricorrenti, di natura curiosa quanto inspiegabile.
Questo interesse fù poi agevolato dalla compagnia di una ragazza, con cui fui per circa 5 anni fidanzato, che essendo assistente sociale aveva qualche dimestichezza con l'argomento, sopratutto a livello di studi e frequentazioni.

Le mie "crisi" più frequenti consistevano in tre diversi tipi di frustrazioni:
le "amnesie", per cui riuscivo a dimenticare le cose più essenziali.
Una volta dimenticai dove avessi parcheggiato l'auto in Padova centro e
non trovandola per ben tre giorni, dovetti farmene prestare un'altra per andare a lavorare ! Con le chiavi avevo poi sempre un problema costante, le perdevo in continuazione, al punto che la porta dell'appartamento in cui da solo abitavo la aprivo ormai...a spallate ! Con grande costernazione dei vicini che non riuscivano a capire...
C'erano poi le "fissazioni", tipo camminare sui marciapiedi lastricati seguendone solo determinate geometrie; o di tipo cabalistico, per cui avevo la costrizione mentale a seguire solo determinate sequenze di numeri e/o ripetere altrettante volte certe azioni, in riti privi di alcun significato.
In testa a tutte le fissazioni c'era il numero "25", che sempre più mi ossessionava. "25" ? "25" ! 25, 25, 25, 25, 25, .....
Numero che mi saltava in mente, così, senza alcuna ragione, all'improvviso, ma solo nei momenti d'imbarazzo, sia che questo imbarazzo fosse indotto da circostanze o accadimenti reali, sia che fosse conseguenza di pensieri che più o meno inconsciamente mi capitava di fare
Infine c'erano i "sogni", spesso veri e propri incubi, la cui costante (almeno nel mio ricordo al risveglio) era il mio essere "il figlio che muore sulla croce" od altra analoga visione del "Cristo qui tollet peccata mundi", espiando l'edipico infame delitto primordiale: la sopressione del "padre" per sostituirsi a lui (S.Freud: "Totem e Tabù").

Non era un bel vivere, sopratutto in certi periodi.
Così, a 25 anni, nella decisione confortato dalla mia amica assistente sociale che mi indirizzò verso un giovane Psicanalista Freudiano, eminente terapeuta presso l'ospedale psichiatrico di Padova, iniziai il mio trattamento di psicanalisi classica, lungo e costoso (faticavo non poco a permettermelo), che durò poi per circa un anno e mezzo.

E fù un'esperienza unica, faticosissima e diatribata ma travolgente ed illuminante, ma solo con il senno di poi...
Perchè sopratutto o quasi solo alla fine, terminata in qualche modo la terapia, io poi acquistai lentamente ma progressivamente in crescendo, la consapevolezza di quanto era avvenuto durante l'analisi e delle importanti, fondamentali conquiste che avevo realizzato, delle conoscenze di me stesso e del mondo che avevo conseguito e dei mutamenti che in me si erano prodotti.
Ma durante l'analisi avevo sofferto molto, spesso avevo dovuto lottare strenuamente con me stesso avendo fortissime resistenze ad aprirmi, ad uscire fuori dalle mie nevrosi, a recuperare un filo logico tra tutti quei "simboli"che le nascondono, ma sono anche la formidabile chiave di lettura dei problemi dell'anima, a partire dai "sogni", la cui importanza fù definita da Freud fondamentale e che io ebbi l'avventura di poter confermare nel mio caso tale, riuscendo infine ad intepretare correttamente i miei più significativi.

A chi non è avezzo con la psicoanalisi classica Freudiana sembrerà strano o non corretto che io parli di me stesso e non dell'Analista come protagonista della terapia: in realtà il suo compito, molto importante, delicato, difficile e stressante è quello di "guidare" il paziente, intervendo solo, ma raramente, con piccoli ma accorti "colpi di timone", con domande ad "hoc", sapientemente centellinate, senza MAI arrivare lui a delle conclusioni, senza mai anticipare...e neppure suggerire. E' il paziente che infine deve trovare, "scegliere" le uniche possibili conclusioni, ed...accettarle !
Lavoro quanto mai lento, faticoso, ostacolato da infinite forme di resistenza,
essendo le nevrosi fortemente abbarbicate negli strati profondi e subconsci della mente, fortemente difesi da ancestrali tabù !
Può capitare, ed è un classico dell'analisi, di fare delle sedute intere di un'ora completamente in silenzio, senza riuscire a dire una parola ! E neppure l'Analista può intervenire rompendo quel silenzio, che in realtà pesa nel contesto dell'analisi più di qualsiasi parola, frase o racconto si possa dire.
Di sedute così ne feci anch'io alcune e furono terribili, per la sofferenza che si prova nella terribile lotta interiore di voler parlare ma non riuscirvi, con la frustrazione per il senso di fallimento insito nel tacere...
Ma queste sedute sono spesso stranamente tra le più importanti ai fini del risultato complessivo.

La chiave fondamentale della mia analisi furono tre sogni, molto classici ed estremamente significativi, che avrebbero fatto la felicità del Dott. Freud.
Ancora ne ho da qualche parte il resoconto, scritto appena sveglio, per non dimenticarlo, come da precisa ed importante raccomandazione dell'Analista.
Il sogno "del cavallo". Il sogno "della piscina". Il sogno "dell'amante".
Prima di raccontarli brevemente s'impone una precisazione.
Anche l'intepretazione di quei sogni, come ogni altra cosa, fù una lenta, faticosa e sofferta conquista, articolata attraverso innumerevoli sedute.
La realtà dell'analisi non è mai come rappresentata nei film: uno và dallo psicoanalista, gli racconta un sogno "et voilà", eccolo bello che interpretato !
La "porta"chiusa dietro cui si cela la "verità" non si spalanca MAI all'imporvviso, ma bisogna grattarla pian piano, smerigliarla lentamente sino a farla diventare lentissimamente trasparente, sempre più trasparente...
Finchè guardando attraverso di essa, la "verità" che si scorge è già" giunta alla nostra "coscienza, ma con tale gradualità che ci sembra in realtà di averla sempre conosciuta...Anche perché già nota in fondo lo era, almeno per quella parte di noi che attiene al "subconscio". Il problema è imparare ad accettarla !
Questi i sogni (non sono certo di ripeterli nello stesso ordine in cui li ebbi) e la loro intepretazione, da me poi lentamente fatta con l’aiuto dell’Analista.

Sogno del cavallo:
“Sto girando per le vie di Padova, sotto i tanti portici, tra via Altinate e piazza Eremitani. All’improvviso si ode un gran frastuono, la gente si agita e fugge gridando al pericolo imminente che anch’io avverto, ma come evento fatale, ineluttabile.
Poi lo vedo, un enorme gigantesco cavallo nero cha avanza al di sopra delle case, calpestandole e distruggendole con la sua foga impetuosa. Fuggo anch’io, ma il mio panico mi sembra comunque subordinato alla prevedibile fatalità dell’evento…”
Mi sveglio prima di essere travolto, con la sensazione che comunque la mia paura fosse smorzata da una qualche consapevolezza che stessi sognando…
Poi in seduta d’analisi ricorderò: quello stesso giorno del sogno ero stato a Marghera a trovare un amico al deposito costiero dell’API, la benzina del “Cavallino”. La finestra del suo ufficio dava su un enorme serbatoio che la sovrastava, su cui era riprodotta la gigantesca immagine del “Cavallo nero rampante che avanza al galoppo”…, immagine che io ricordavo di aver lungamente osservato, se pu parlando con il mio amico, con un senso d’inconscia inquetudine, assimilandola come simbolo della mia nevrosi.

Sogno della piscina:
“Sto nuotando, come al solito faccio vasche su vasche, come tutte le volte che ho tempo e modo di fare. Avanti e indietro, nella vasca coperta da 25 mt. della Rari Nantes di Padova, in Paltana. La piscina è relativamente buia, quasi tetra, ed io sono il solo a nuotarvi. Avanti e indietro, e poi ancora, tante volte, infinite volte, finchè non è più il solito piacevole, corroborante allenamento, diventa una coazione…
Avanti e indietro…finisco con il domandarmi se arriverò mai da qualche parte…
Poi scorgo una luce sul fondo, una sorta di uscita…, ma continuo a nuotare, avanti e indietro, prigioniero di quell’ambiente, che avverto ormai alla stregua di una prigione e dal quale non trovo comunque vie d’uscita”.
Mi sveglio stressato ed affaticato, soprattutto claustrofobico !

Songo dell’amante:
“Ho un incontro amoroso, di cui mi sfuggono i preliminari. Una bella, giovane e procace donna, che mi si offre senza reticenze, incondizionatamente, senza mezzi termini…Ed ora è già nuda, spalancata per accogliermi…Mi avvicino voglioso, totalmente dedito…, ma già mentre l’avvicino lei si trasforma, decade, sfiorisce, non è più giovane, non è più procace, non è più bella…la sua carne impallidisce e ragrinza sformandosi, il suo volto diventa coperto di rughe, le sue labbra inaridiscono screpolate, il suo ventre si affloscia come un otre…”
Mi sveglio stressato, incredulo e deluso, allarmato da quella macabra trasformazione.

Analisi intepretativa:

Il cavallo è forse il più classico simbolo “edipico” della figura paterna.
Il mio subconscio Edipo irrisolto la teme, ne ha desiderato la soprafazione per poter prendere il suo posto, per avere tutto e solo per se l’amore materno, senza rivali…
Una situazione di nevrosi classica, da manuale, estremamente ricorrente che è quasi…anormale non aver mai provata !
E di cui restano nel tempo tracce più e meno importanti, a seconda dell’evolversi della personalità individuale ed al mancato superamento dei relativi tabù subconsci.

L’ambiente piscina, caldo ed umido ma costrittivo è in realtà il “grambo materno”, in cui mi trovo prigioniero da troppo lungo tempo …Si, io amo nuotare, ma quello è un ambiente ormai molto limitato,una prigione senza vie d’uscita…Solo immergendomi sul fondo, verso quella luce che ho intravista, rischiando l’apnea prolungata, posso sfuggire alla mia claustrofobia…ed emergere nel mare aperto…nel libero mondo reale, affrancato da timori e tabù che tuttavia mi costringono e condizionano.

La bella, attraente giovane donna nuda che attira irresistibile…tranne poi trasformarsi in una vecchia decrepita, è l’immagine della “madre”: all’inizio appare come la vedevi e desideravi con relativa innocenza da bambino…ed infine diviene ciò che nella realtà accade, trasformata dagli anni e dalle ingiurie del tempo…
Tempo del quale tu sembri rifiutare il trascorrere insesorabile… prigioniero di un Edipo irrisolto.

Questo per sommi capi. Sogni che furono comunque, collocati nel contesto generale dell’analisi, chiavi fondamentali per lentamente capire e lentamente risolvere i disturbi della mia personalità: le fissazioni, le amnesie, le ritualità coatte, le reiterate forme di autolesionismo.

Ma restava la fissazione sul numero“25”, che da anni oramai, quando più, quando meno non mi dava tregua.
Ne venni a capo grazie ad un’intuizione, probabilmente guidata dalla consapevolezza che l’Analisi mi stava lentamente fornendo.
Mi trovavo a Genova, dove ricorrentemente andavo da Padova a trovare i miei. Con mia madre andammo a fare un giro al “monumentale” Cimitero di Staglieno, dove sono sepolti tutti i nostri morti.
Io volli espressamente passare anche dalla tomba di mio fratello “maggiore”Alessandro, morto a soli 15 giorni, di polmonite, nel 1939. Si trovava da ormai quasi 30 anni nella zona dei bimbi morti piccoli, defilata dagli altri luoghi che eravamo soliti visitare: una lunga fila di piccole tombe posta sul tetto di un padiglione lontano dall’ingresso.
Quando arrivammo là, dove non passavo più da molti anni, lessi l’iscrizione e subito capii: “25” ! “25 Febbraio 1939”, era la data in cui morì, 15 giorni dopo essere nato, l’inconsapevole primo figlio di mia madre !
E subito mi fù tutto chiaro e, quella volta improvvisa , grande liberazione!
Io purtroppo avevo patito un forte condizionamento già nella prima infanzia, ma poi anche dopo. Indotto da una mamma giovanissima, inconsapevole e a sua volta estremamente condizionata dal dolore per la perdita del suo primo bambino.
Che perciò aveva riversato su di me tutte le sue paure, le sue ansie, la sua tenerezza enorme, trascesa in morbosità.
Aveva perciò finito con il condizionarmi pesantemente, anche continuamente rammentandomi, quasi “recriminando”, quanto fosse stato bello, grande, favoloso mio fratello Alessandro, il bimbo nato prima di me, già amatissimo e sempre rimpianto, mancato “implume” di pochi giorni.
Di cui io non ero evidentemente che un surrogato premio di consolazione…E di cui io divenni incosapevolmente morbosamente geloso, sino al punto di desiderare di morire a mia volta, per essere infine anch’io così rimpianto ed amato !
Desiderio poi rinsaldato nel tempo dall’immagine del Cristo, il “figlio” che muore sulla croce, amatissimo e strenuamente rimpianto nel suo immenso dolore da Maria, la “madre” per antonomasia !
Ed io tante volte poi, già adulto, sognai nevroticamente di essere quel “figlio” e di morire anch’io, platealmente sulla corce, finalmente rimpianto ed amato come quel Cristo, come quel fratello, simbolo incosapevole di una gelosia assurdamente indotta.

La “fissazione” sul numero “25” l'avevo cristallizzata anni prima, quando trovandomi con i miei nonni a visitare quella piccola, innocente tomba, in un periodo in cui stavo subendo un grave esaurimento nervoso, ero stato assalito da un barlume di visione di ciò che ho qui sopra descritto, ma non potendolo metabolizzare ne esorcizzare, in definitiva comprendere e né accettare, avevo finito con il "fissarlo", nascosto in quel numero, nel profondo del mio subconscio.
Da cui tuttavia inaspettato ed improvviso riemergeva, inspiegabilmente, in situazioni d’imbarazzo, che analogmente io avrei voluto sepellire, nascondere, annullare !
E quel numero inspiegabilmente ricorrente era la chiave per farlo.

Quando dopo un anno e mezzo cessai la psicanalisi lo feci perché non ero economicamente più in grado di permettermela, non riuscivo a pagare le sedute…
Ma comunque ero già consapevole della grande esperienza che per me aveva rappresentato e per i notevoli benefici che ne riscontrai, progressivamente nel tempo.
In teoria è difficile definire quando un trattamento in Analisi possa definirsi concluso…Spesso non lo è mai…Ma io mi sentii comunque consapevole che, se pur tutto non era stato sviscerato e risolto, avevo pur sempre ritrovato un accettabile equilibrio, una salda consapevolezza di me ed un’adeguata padronanza di gran parte delle mie emozioni, ovviando nel contempo ai problemi, alle fisime, alle amnesie, alle fissazioni e coazioni che per anni, a fasi alterne, mi avevano disturbato.
Soprattutto avevo imparato ad accettarmi, con i miei limiti e difetti, realizzando che in definitiva io non fossi l’unto del Signore destinato ad imolarsi sull’ara sacrificale, ma più o meno invece il classico “pirla qualunque”…
E ad accettare gli errori commessi dai miei giovanissimi, talora incauti ed incosapevoli genitori, nel gestire la mia infanzia caricandola di troppe ed eccesive emotività, paure e sensibilizzazioni spesso fuori luogo, comunque eccessive.

Dopo l’esperienza della psicoanalisi io cambiai.
Come mi aveva preavvertito l’analista diversi lati del mio carattere e temperamento ebbero a modificarsi: non necessariamente in bene od in male, parametri quasi irrilevanti ai fini della specifica valutazione.
Persi di eccentricità creativa, divenni meno esasperatamente sensibile, calarono alcune mie predisposizioni genialoidi. Divenni più equilibrato, più concreto, più attento alla realtà, più accorto nelle scelte di vita e determinato nel perseguirle.

La mia vita ebbe poi forse meno slanci profondi, assenza o quasi di abissi emotivi, dubbi, incertezze, paure ingiustificate, sensi di colpa, fisime irrazionali.
Sono rimasto un “emotivo”ben controllato, almeno apparentemente, ma sicuramente ipersensibile a livello psicosomatico.
Mi porto tuttavia avanti la mia accettabile dose di “tic”, più o meno inconsapevoli e tanti difetti, con i quali ormai riesco a convivere più che a combatterli.

Sto infine cercando di organizzarmi per una prossima vita, nel caso assai improbabile che me ne tocchi un’altra futura…Il grosso problema è : riuscirò a ricordarmi i buoni propositi che sto formulando ?
In ogni caso, qualora addivenissi ad una “metempsicosi” (trasmigrazione delle anime) mi piacerebbe tanto rinascere “delfino” !
Come forse già ero in una vita precedente: sicuramente sono poi rinato “uomo” per esseremi mal comportato !
Altro problema: cosa può mai combinare un delfino per essere così duramente castigato ?
Se qualcuno ha una risposta attendibile lo prego di farmela sapere, non vorrei poi ripetere l’errore già commesso.

The lonely “dolphin”.































































































sabato 28 maggio 2011

LA NONNA GISELLA

LA NONNA "GISELLA"*: NOVECENTO ATTO 1°
* v.nota a fine racconto

Si, l'epoca ed i luoghi in cui si svolge il racconto sono esattamente quelli del film di Bertolucci !
Gisella nacque esattamente nel 1899 in quel di Montecchio Emilia, accanto al torrente Enza che divide le province di Parma e Reggio.
Montecchio resta sulla sponda "Reggiana", ma la maggior parte dei Montecchiesi che ho conosciuto, a partire dalla nonna Gisella, ambiscono definirsi "Parmigiani" ed a Parma facevano riferimento per ogni possibile necessità o frequentazione.
La Gisella si piccava anzi del suo essere "Parmense", avendo quasi il pudore di nascondere la reale ubicazione geografica delle sue origini, come se fosse disdicevole essere di Reggio, neanche si fosse allora già palesato un tale "Professor Prodi", reggiano da cui doversi opportunamente ed in ogni modo dissociare.
Ma Parma è tutta un'altra cosa, è la patria di "Peppino"Verdi ! (e di Giovannino Guareschi !), sede del gran Ducato di Maria Luigia, celebrato da Sthendal per la sua Certosa e quant'altro ! Fù ed è città di cultura e di business, patria del più grande formaggio del mondo, di grandi inziative industriali in campo alimentare e non solo, da Parmalat ad Arquati, grandi nel bene e nel...male. Patria di salumi soprafini, dal culatello al Felino...
Ecc.., ecc...
Anche Reggio, per carità, ha le sue belle prerogative, oltre a quella di essere la città più..."rossa "d'Italia. Ma Parma è un'altra cosa !
Gisella crebbe, unica femmina tra numerosi fratelli, in una famiglia ovviamente contadina della "bassa" pianura, dove il sole in estate picchia come un maglio, facendo andare in cottura anche i cervelli meno esagitati", come era solito ripetere Guareschi nei suoi racconti dedicati a Don Camillo e Peppone.
E tra i parenti di Gisella, fra sole e Lambrusco, più di uno finì con il risentire del "clima"...Mi raccontava di un suo fratello, temperamento anarchico votato al socialismo, che dopo il '22, quando arrivarono le squadracce "Fassiste" (vedi l'"Attila" di Bertolucci) a bastonare per conto dei proprietari latifondisti i contadini ribelli, lui che esattamente contadino non era, si ribellò in ogni modo, contrastandoli con il coraggio della follia irridentista, finchè non lo presero di mira e decisero di fargli la pelle.
Sentendosi braccato e definitivamente perso decise di suicidarsi : non mi avranno vivo! Ma per farlo scelse, tra i tanti più logici, il mezzo meno pratico ed efficace :
buttarsi dalla finestra, di esito quanto mai improbabile in una zona dove le case più alte non arrivavano che ad un "secondo piano"...
Testardo e determinato lui insistette, finendo col buttarsi...più volte dai 4 - 5 metri massimo che gli offrivano le costruzioni disponibili.
Essendo anche forte, gagliardo e resistente dovette ripetere l'operazione numerose volte, insistendo ad atterrare "di testa"...la cosa forse più dura del suo corpo !
Alla fine si trascinava carponi, già in gran parte stordito e fratturato, su per le poche scale per tuffarsi nuovamente, ma alla fine riuscì nell'intento.

Altro bell'elemento era il papà di Gisella, una specie di gigante forzuto cui la nonna mi diceva io assomigliassi. Il quale morì, Gisella era poco più che bambina, a 39 anni di "crepacuore".Questo il referto emesso dai "cerusici" di quel tempo.
Ma il suo crepacuore non aveva origini emotive, non causava da grandi dispiaceri o problemi esistenziali...Voleva solo dire che il suo cuore si era "rotto" in conseguenza degli sforzi fisici estremi cui il papà di Gisella si sottoponeva, così per scommessa !
Egli oltre al phisic du role ci aveva anche la "testa", il culto della propria forza fisica esibita ad oltranza, sopratutto se provocato da scommesse sempre più ardue dai compaesani divertiti ed alterati dai fumi di "Lambrusc"...
Lui era commerciante di vini e titolare di Osteria Trattoria, nella quale già lavorava la giovanissima Gisella, a dodici anni in grado di arrotolare i "cappelletti" contemporaneamente con due mani: nello stesso istante ne faceva uno con la sinistra ed un altro con la destra !Ciò che io poi la vidi replicare molti anni più tardi.
Come Oste e Trattore si sentiva anche in dovere di esibirsi ed intrattenere gli avventori, facendosi trascinare nelle prove e nelle scommesse sempre più assurde e di improbabile esito.
Come quella di sollevare un tavolo in legno massiccio dell'osteria con dodici uomini seduti sopra ! Si infilava sotto il tavolo e spingendo con gli arti verso la schiena finiva col sollevare il tutto di qualche centimetro, quanto bastava per vincere la scommessa, parliamo di circa una tonnellata o poco meno !
Oppure trainare un carro carico di botti piene vino sino alla stazione, mettendosi tra le stanghe al posto dei cavalli !
O ancora in stazione agganciare da solo, spingendolo a mano, un vagone carico al treno !
Una volta disse a Gisella:"vieni vè, che andiamo a vedere il mare"!
Ma non la fece salire sul treno, troppo banale: la montò sulla canna della sua bicicletta, un cancello di almeno 20 chili, e pedalando verso la Cisa, allora ancora infestata dai briganti, arrancò fino al mare !
Prima di morire giovane per "rottura del miocardio" aveva aperto una trattoria "Parmigiana" anche a Genova, città con cui già commerciava e fù li che dopo la sua morte finì Gisella.
Anche sua mamma morì giovane, di mal sottile (o tubercolosi), causa di decesso allora assai frequente; i giovani fratelli superstiti finirono allo sbando, l'eredità paterna fagocitata dai furbastri di turno in assenza di qualcuno capace di proteggerla. L’ osteria genovese finì nelle mani di una zia che, bontà sua prese Gisella con se a vivere, sopratutto a lavorare, sfruttando le sue notevoli capacità di cuoca e la sua… precoce avvenenza per servire tra i tavoli ed attirare i clienti.
A 14 anni Gisella era già sviluppatissima e dovette presto difendersi dalle avançes di avventori impudenti ed alterati dalle libagioni e lo faceva senza mezzi termini : più di una volta una pesante bottiglia di vino ebbe a rompersi schiantandosi sul cranio di qualcuno che aveva osato allungare le mani al suo passaggio ! La fanciulla imparò assai presto ad esercitare il forte carattere insieme al forte fisico di cui la natura l'aveva dotata.

La zia "scapolona" la condusse presto con se al ballo, per usarla a mò di richiamo per quei baldi giovani che a lei stessa sopratutto premevano...
Tra quelli un bel giorno Gisella ne notò uno, il più alto ed aitante, che tra gli altri la puntava (si, letteralmente, come si usava allora: l'invito al ballo si formulava puntando il dito verso la dama e talora più "cavalieri" si trovavano a puntare la stessa ballerina ed a lei toccava scegliere con chi danzare). Lei lo scelse e fù così che lui divenne poi nostro nonno Federico...

Ma per divenirlo la strada fù lunga, tormentata ed avventurosa !
Gisella infatti aveva una particolarità fisica del tutto atipica, imprevedibile in una maggiorata con la sua prorompente silouette: era sterile !
Lo aveva verificato partendo dal fatto che il suo ciclo mestruale non era mai iniziato.
I vari accertamenti si conclusero a Parma, dove un eminente ginecologo la informò, dopo averla attentamente visitata, che non avrebbe mai avuto figli.
Gisella si rassegnò a questa sua condizione, che probabilmente risultò quanto mai comoda per il suo nuovo amico, Federico, bel tipo, gran tombeur de femmes quanto mai alieno ad impegnarsi in legami matrimoniali !
Abilmente la convinse a cedere ai naturali impulsi che, oltre ai sentimenti premevano nei loro giovani corpi, tanto non correvano alcun rischio...

Ma la natura prima o poi si ribella e presenta il suo conto.
Non a caso la nonna Gisella era solita usare un'eufemismo tipico per la sua generazione, la parola "natura" per definire l'organo sessuale femminile…
Fù così che lei, pressochè diciotenne (ma da almeno due anni frequantava il baldo Federico) risultò essere un pò...incinta !
Tornò dal professore Parmigiano che l'aveva dichiarata sterile, il quale non ebbe che da constatare l'assoluta improbabile stranezza del fenomeno: si, inspiegabilmente la ragazza ci era rimasta...La studiò anche in Ospedale, come caso totalmente atipico,...ma la conclusione pratica...quella rimase.
Scandalo ! Nel 1919 una ragazza madre era considerata nel migliore dei casi alla stergua di meretrice !
Scandalo ! Il baldo Federico, fresco "Ardito", reduce degli Alpini della prima guerra mondiale appena terminata, si eclissò veloce e rapido come un..."dirigibile", immagine alata quanto mai rappresentativa della “moderna rapidità” di quei tempi.
A Gisella non restò che fuggire lontano da Genova.
A nascondere il suo peccato tornò nel Parmense, presso un'altra zia, defilata in quel di Zibello, patria gloriosa del culatello, dove nell'Aprile del 1920 nacque una deliziosa bambina, cui fù imposto il nome di Lidia, figlia del “peccato”!

Ma nel Parmense Gisella non restò a lungo, anche in seguito alle avançes del marito della zia, un simpaticone che, perduta per persa che fosse la giovane puerpera, tanto valeva approfittarne…e si prese anche lui la sua bella bottigliata in testa…
Gisella raccolse tutto il suo coraggio (e non era poco), la sua bellissima bimba e tornò a Genova, determinata a mettere Federico davanti alle sue responsabilità.
Federico, che era ben navigato in vicende di ogni tipo, essendo cresciuto alla dura e variegata scuola dell’angiporto Genovese e della trincea di prima linea a Caporetto e d’intorni, avvertito della Gisella che lo stava cercando si organizò al meglio per non farsi incastrare. Conoscendone il temperamento focoso ed iracondo la prevenne, andandole incontro per affrontarla, fiancheggiato da un paio di compari che, quando Gisella fù a lui vicina la bloccarono e perquisirono per verificare che non avesse il coltello od altra arma “per vendicare il suo onore”, come in uso a quel tempo…
Ma l’arma letale della Gisella risultò presto essere… Lidia, la piccola, bellissima bimba alla cui vista il rude e prode Federico disarmò ogni difesa, si sciolse e capitolò e capì di essere “padre”.
Così Gisella e Federico iniziarono a convivere con la loro figlioletta, nata solo per un errore della “natura” ( a conferma del quale errore Gisella continuò poi a non avere mai il ciclo mestruale !).

Rimasero insieme per oltre 60 anni, sopravvivendo dolorosamente all’unica figlia, prematuramente mancata, conducendo un menagè familiare caratterizzato da reciproca solidarietà alternata a continui e spassosi litigi, spesso basati sul nulla, alla stregua dei comici personaggi di tante vignette e commedie, rappresentanti copie in continuo alterco o discussione, tipo Tordella e Capitan Coccoricò del Corriere dei Piccoli, alla cui lettura mi iniziò proprio il nonno Federico, piùtosto che i personaggi marito e moglie delle divertenti commedie di Govi…cui Federico finì per assomigliare, se non altro nei modi e nelle battute che volutamente imitava.
Gisella dovette rassegnarsi da giovane alla compagnia di un marito che era assolutamente un brav’uomo, ma spesso si lasciava trascinare dalla “goliardia” compagnona dell’essere un “Alpino”, un “Ardito” ed anche un fascista di maniera…
Emblematica la sua partecipazione alla “Marcia su Roma”, dove mai riuscì a giungere, perso per strada tra bagordi, libagioni e fanciulle compiacenti…
Tornato infine a casa, tuttavia alticcio, raccontava Gisella impiegò la forza eccezionale che aveva nelle mani (me lo ricordo settantenne che rompeva una noce tra le dita di una sola mano!) per girare verso l’alto il rubinetto dell’acqua: gli dava fastidio che pisciasse in basso, posizione contraria ad una sana e mascolina erezione…

Come anche altrove ho raccontato, Gisella fù spesso in famiglia con noi, presso la figlia, con il ruolo ufficiale di “cuoca”, essendo estremamente dotata nell’arte culinaria: famosi molti suoi grandi pranzi a base di cappelletti in brodo, cima alla Genovese ecc…ecc…, che rendevano il meglio delle cucine regionali Emiliana e Ligure (ciò che non è poco!).
Ci seguì più o meno ovunque migrassimo, da Genova a Civitavecchia, La Spezia, Padova…”abbandonando” il “povero” Federico…che approfittava di buon grado delle sue assenze per indulgere a quel po’ di “libertà" che gli acciacchi dell’età ancora non gli impedivano di godere.
Credo che l’alternarsi di questi periodi di lontananza fosse decisamente salutare per un accettabile trend di rapporti della copia.
Comunque arrivava sempre il momento in cui la Gisella, “fatto il pieno” della nostra compagnia ( e noi della sua, talora…invadente) ripartiva per casa sua: “vado a vedere cosa combina quel pover uomo di vostro nonno”…

Fù sempre una donna molto attiva, anche fisicamente nonostante la mole, gran lavoratrice e sempre molto determinata. In più di un'occasione la sentii recriminare lamentando che, se avesse avuto un altro tipo di uomo che non Federico, lei avrebbe avuto certamente un successo garantito aprendo un suo "ristorante"...e sicuramente aveva ragione ! Non era infatti solo una cuoca eccezionale, capace di non buttare via nulla, riciclando al meglio qualsiasi elemento commestibile o quasi, aveva anche uno spiccato senso degli affari e dell'economia !
Ed era estremamente intraprendente.
Ebbi modo di osservarla accompagnandola al "Mercato Orientale" di Genova, accanto a via XX Settembre: girava tra i banchi indagando con l'occhio attento, perfino rapace, memorizzando merci, qualità, prezzi...
Poi veloce come un moderno computer risolveva l'equazione: prezzo-qualità media dei prodotti-ubicazione del banco e puntava decisa su quello, dove intraprendeva una trattativa levantina su prezzi e quantità,
e mentre il venditore si distraeva per pesare o dar retta ad un altro cliente lei, veloce come il fulmine ma imperturbabile come il cielo azzurro, acchiappava dal banco una o più manate di merce (frutta, verdura...) e se l'infilava nella borsa...!
La sua abilità in cucina non aveva limiti, anche nell'aspetto squisitamente "tecnico": riusciva a disossare un pollo senza perderne un lembo di pelle: lo spogliava letteralmente lasciando intera la sua "tutina" di pelle, abile e rapida come un chirurgo vascolare.
Una volta in Brianza, dove morto il nonno rimase più volte con noi per diverso tempo, mia moglie Wanda l'accompagnò ad acquistare la carne nella migliore macelleria della zona. Lei voleva prepararci la "cima alla Genovese" e chiese perciò un taglio fine e regolare, ben squadrato di non ricordo quale parte della carne di vitello. Il macellaio la guardava stralunato senza capire, essendo per lui quella una novità assoluta.
La Gisella lo aiutò a trovare quella carne e cercò di spiegargli come avrebbe dovuto tagliarla, ma inutilmente.
Allora perse la pazienza e davanti all'ormai molta altra clientela in attesa, con Wanda che non sapeva più dove andare a nascondersi,
la nonna Giosella partì spedita, andò dietro al banco, strappò di mano il coltellaccio al macellaio allibito ed impotente ed in quattro e quattro otto, con inusitata perizia, si fece il suo bel taglio perfetto dando una eclatante dimostrazione di grande abilità "chirurgica"...Applausi !
Poi tornarono altre volte da quel macellaio, ed ogni volta lui interrompeva di servire altri clienti, ed annunciando lo spettacolo, la inviatava a prendere il suo posto !
Quando Wanda ebbe modo di tornare da sola a quella macelleria fù sempre richiesta con preoccupazione di notizie "della nonna".
Che non solo spendeva cifre importanti, ma dava anche spettacolo.

Nel 1975, Federico morì più che ottantenne (ricordo che nei momenti di vaneggiamento che precedettero la sua fine, il cuore cui non bastava ormai più neppure il pacemaker, si rivedeva in trincea, davanti alla morte cui era sfuggito nel 15-18 e dal letto ci indicava una sentinella, allora colpita a morte e che ora, dopo 60anni lui stava raggiungendo…). Gisella rimase sola, tranne l’episodica compagnia della nipote Elisabetta, che per quanto si prodigasse non poteva assisterla come lei, sempre più noiosa, avrebbe preteso ed in parte richiesto.
Mario viveva a Padova ed era il più lontano. Io in quel di Como, la ospitai più volte, finchè fù in grado di muoversi, comunque spesso andavamo a trovarla.
Una mattina d’estate, Elisabetta era via in vacanza, non erano neppure le sei che la nonna ci telefonò: aveva fatto un brutto sogno, stava male…”Non ti preoccupare, stai tranquilla, arriviamo subito”. Alle 8 eravamo già da lei a Genova, approfittando anche del fatto che i nostri bambini fossero in vacanza al mare con la zia Bruna.
La rincuorammo ed accompagnammo fin quasi a sera, e fù allora che, inaspettatamente ci esternò tutto il racconto della sua iniziale avventura con Federico, l’illegittima nascita di mia madre Lidia, e tutto il colorito contorno che qui sopra ho cercato di riportare. Ci sarebbe voluto il registratore per cogliere appieno le notevoli caratterizzazioni di quella narrazione !
Io qualcosa sapevo, qualcosa avevo intuito, circa i difficili e diatribati inizi collegati alla nascita di mia madre, ma non immaginavo una “storia” così tipicamente stile “Novecento”!

Gisella morì qualche anno dopo, anche lei ottantenne, forse il giorno successivo a Natale, sola, in un ospizio di suore, legata al letto…
Ciò che dopo 32anni è ancora mio grande cruccio !
Ma non c’erano alternative, tranne una eroica impraticabile iniziativa…
Elisabetta le aveva provate tutte, ma non c’era soluzione per evitare il ricovero.
Fui presente anch’io una volta, quando stava cercando una badante disponibile ad accudirla: nessuna durava non riuscendo a sopportare…l’insopportabile Gisella !
Si presentò una signora che già mesi prima ci aveva provato: quando si ricordò di chi si trattava disse: “no, guardate, neanche se mi ricoprite d’oro !”
La nonna Gisella non era minimamente autosufficiente e di fatto ingestibile al di fuori di una struttura specializzata ed attrezzata. Così fummo costretti a percheggiarla in attesa che morisse…Sono parole dure, crude, ma è purtroppo la verità.
A Novembre, un mese o poco più prima che mancasse, trovandomi per lavoro non lontano da Genova andai a trovarla, senza preavviso. All’Ospizio, vicino alla Stazione Brignole, dovetti spiegare che ero il nipote che viveva lontano e che ero casualmente di passaggio. Mi fecero aspettare un buon quarto d’ora, ovviamente per renderla presentabile. Fù un incontro straziante: piangeva disperata, pregandomi di portarla via da li, che mi avrebbe dato utto il suo denaro…
Ne uscii distrutto, con in mente un’unica soluzione, quella che mi ribadii invano poco dopo, a Natale quando morì, avrebbe potuto essere la migliore: l’eutanasia !

La parola, il concetto sono estremamente forti, provocatoriamente inusuali, nel caso specifico apparentemente assurdi !
Ma provate ad immaginare: una grande festa a casa nostra, con tutti i nipoti e pronipoti radunati per festeggiarla, magari proprio in occasione del Natale…
Con la Gisella che può anche gustare per l’ultima volta i suoi cibi preferiti, circondata dall’affetto di tutti i suoi cari che inneggiano alla sua nota vanità e la celebrano in quanto capostipite, “nonna” di tutti i presenti…
Felice, inebriata, aiutata alla fine da quanto di più soft all’occorrenza, lei lascia felice e serena, nel pieno degli affetti familiari questa valle di lacrime…!
Averne avuto il coraggio ! Averne il coraggio !

Nò, non và bene, non è morale: assai meglio morire soli come cani, legati ad un letto anonimo, circondati da tristi, lugubri monache inacidite, sapendo che sei sola ed è Natale e nessuno, nessuno dei tuoi cari è li con te per festeggiarlo !

Mi spiace enormemente chiudere in un modo così triste un racconto per altri versi forse ameno ed edificante !
Ma la mia coscienza non riesce a rassegnarsi al conformismo del comune presunto volere e si ribella alla perbenista e vile crudeltà istituzionalizzata.

Per quanto mi concerne mi auguro, in assenza di un bel “colpo da restarci secco all’istante”, di avere la forza, la lucidità ed i mezzi per provvedere da solo, se e quando occorrerà.

The lonely dolphin.

Cantù 1975, piscina del Parco Consonni: da sinistra Valentina, Wanda con in braccio Gioel, Bruna e la "nonna Gisella" (dietro di lei si intravede Pericle in costume).

* La nonna Gisella fù nota come "Maria" per gran parte della sua vita. Solo negli anni '60 qualcuno la convinse, forse a ragione, che il suo vero nome, "Gisella" era più bello ed originale. Così da allora divenne "la nonna Gisella".

giovedì 26 maggio 2011

PERICLE, sesta ed ultima parte

PERICLE, l'uomo che visse più volte


PERICLE sesta ed ultima parte.

(nella foto Lidia e Pericle con l'autore del racconto, Genova 1942)


Come al solito Pericle a Padova partì alla grande, familiarizzò velocemente con il nuovo tipo di lavoro, prese in mano molte iniziative conducendole al meglio, si accattivò molti clienti vecchi e nuovi…Presto in diversi pensarono che fosse lui il vero titolare della Ditta “Vassallo Arredamenti”…
Arrivò a pensarlo anche il Fisco, da sempre sulle sue tracce e per Mario fù dura e costosa (leggi: avvocati…) la dimostrazione che così non era.
Assai più costosi furono gli ammanchi che di lì ad un paio d’anni Mario assai dolorosamente, in tutti i sensi, ebbe a rilevare, causati da…indebiti Prelievi di Pericle.
Ammanchi nell’ordine di molti milioni di lire !
All’inguaribile, inalienabile propensione al gioco d’azzardo si era allora aggiunta una grossa motivazione scatenante: Pericle si era risposato !
Aveva quasi vent’anni meno di lui e sembra l’avesse conosciuta in quanto già cliente...morosa del negozio di mobili: andò a casa di lei per sollecitarne i pagamenti e…finì con allargarne a dismisura la posizione debitoria…Galeotto fù il credito e chi ne tentò l’incasso invano…
Io resto convinto che però lui già la conoscesse e l’avesse…frequentata dieci anni prima, quando vivevamo a Padova, a nemmeno cento metri da dove lei abitava…
Resto convinto che fù un “revival”, probabilmente occasionale, ma sicuramente scatenante: Pericle aveva 56 anni, nonostante tutto ben portati e sicuramente molte “cartucce” in canna ancora da sparare…Era e si sentiva solo, libero e bisognoso di consolazione. Lei non era certamente al suo livello di educazione ed intelletto, ma sicuramente gli rendeva molto bene in quanto a glamour e tenerezza.
Fummo tutti contenti della novità !
Almeno finchè non saltarono fuori le magagne finanziarie.
Mario mi chiamò per aggiornarmi della disastrosa situazione e non potei che essere solidale con lui sulla tristissima opportunità di allontanare definitivamente Pericle da ogni attività collaborativa. Non ricordo una decisione tanto sofferta, pietosa ma d’inesorabile determinazione !
Ci fù poi un incontro a quattro a Genova, in casa di Edilio, con Mario ed io stesso (non ricordo se ci fosse anche Elisabetta), in occasione del quale ci sprecammo in patetici ed assurdi quanto inutili predicozzi al suo indirizzo…Di quello che io dissi nell’occasione ebbi poi a rammaricarmi: per quanto dovuto era semplicemente inutile ed impietoso, un mero sfogo che avrei fatto meglio a trattenere.

Così Pericle, al giro di boa dei sessant’anni, si trovò di nuovo in braghe di tela, e con una moglie appena quarant’enne a carico.
Cercammo comunque di aiutarlo (spiccioli), ma alla fine riuscì nel breve, come al solito ad aiutarsi da solo !
Aveva ormai raggiunto il gradino più basso della sua discesa agli inferi, e l’ennesimo lavoro che trovò, per quanto decisamente umile per lui, fù di nuovo tanta manna dal cielo, data la sua situazione.
Questa volta fù un altro vecchio amico ad offrirgli una possibilità di sopravivenza, il itolare della Letterfix, primaria azienda nel settore dei sistemi autoadesivi di scrittura e segnalazione, al condurre la quale era ormai il figlio. Pericle entrò nell’organizzazione commerciale come ispettore venditore e come al solito ottenne presto dei buoni risultati. Il lavoro non era un gran che, ma gli offriva discreti ricavi e libertà di movimenti, in ogni caso riuscì a farselo bastare, sembra questa volta senza combinare altri pasticci. Sicuramente ogni tanto andava a giocare al casinò, da qualche parte, ma ormai aveva scarsa disponibilità da rischiare…
Si muoveva più o meno in tutto il nord Italia ed ogni tanto era Genova, dove vedeva Elisabetta, nel frattempo divenuta affermata giornalista, felicemente coniugata e nell’83 mamma di Enrico, per il quale Pericle ovviamente sbavava…
Ogni tanto passava da noi, nel Comasco, dove gioiva dei nipoti Valentina e Gioel, ormai grandicelli, come a Padova, dove c’erano Federico, Alessandro ed Isabella, i figli di Mario. E la moglie, della quale, lo confesso non ricordo più nemmeno il nome.
Poi, nonostante ormai da diversi anni avesse smesso di fumare, nel 1985 il solito maledetto cancro si manifestò anche nei suoi polmoni, e fù subito evidente che c’era ben poco da sperare…
Ciò nondimeno si tentò comunque di tutto, inclusa l’arrampicata sugli specchi delle pratiche alternative: fui io a condurlo a Milano da un medico naturopata che usava la cura del “vischio”, circa i cui effetti c’era tutta una letteratura in ambito erboristico ed omeopatico e che in alcuni casi sembrava aver fatto miracoli…
Ma non li fece nel suo caso…
Lui, scettico come sempre, accettò di fare anche quel tentativo ( ma forse sarebbe venuto anche a Lourdes se avessimo insistito per condurvelo…).
Poi si giocò l’ultima carta all’Ospedale di Trento, dove era di attualità un tipo d’intervento mirato, mininvasivo, che consisteva nell’entrare con una sonda nel torace, raggiungere il male e cauterizzarlo in tanto fumo…
Intervento che si rivelò poi doloroso quanto inutile: quando andai a riprenderlo dopo qualche giorno era fortemente provato ed ancora dolorante ed il chirurgo che lo aveva trattato mi disse che la diffusione del male era ormai tale che non c’era più nulla da fare ! Non restava che la morfina per lenire il dolore.
Morfina che assumeva già da tempo, anche mentre era con noi in Brianza, e ricordo con rabbia quanta fatica dovevo fare per procuragliela: c’era solo una farmacia a Milano dove da Como dovevo ogni volta andare, sempre avendo dei problemi perché finalmente me la consegnassero, nonostante la regolare ricetta medica e gli altri documenti di prassi allegati. Sarebbe stato assai più semplice ed immediato acquistarla dagli spacciatori, ai tanti angoli delle strade dove erano notoriamente piazzati, in chiara evidenza…
Da Trento lo portai a Padova, a casa di Mario, dove preferì finire i suoi giorni e dove poteva raggiungerlo facilmente anche la moglie per accudirlo.

Un primo pomeriggio di Settembre del 1986 ero a Brescia da un cliente che stavo trattando una vendita. Avevo appena iniziato quando suonò il telefono:” E’ sua moglie che la cerca” mi dissero cortesemente. Stupito che fosse riuscita a trovarmi lì risposi a Wanda che mi informò della morte di Pericle appena avvenuta.
Feci finta di nulla, continua il mio lavoro concludendolo al meglio, esattamente come da lui avevo imparato a comportarmi, senza cedere inutilmente all’emozione e dedicando alla sua memoria quel mio comportamento.
Arrivai a Padova dopo neppure due ore ed ebbi la piacevole sorpresa di ammirare il suo volto, così come, Mario mi assicurò, era rimasto al momento del decesso: sereno e sorridente, più che sollevato dal male e dal dolore, come se avesse infine varcato un ambito oltre il quale potesse aver trovato non solo la pace, ma forse anche ogni altro bene perduto, Lidia compresa !
Questa sua immagine restò per noi di gran consolazione e mi sollevò dal ricordo amaro che mi aveva lasciato la sua risposta negativa alla mia domanda, fattagli poco tempo prima: se avesse desiderato nonostante tutto rivivere la sua vita…
Cosa che io sarei immediatamente pronto a fare per la mia, con entusiasmo, magari saltando qualche passaggio e correggendo qualche particolare…, ma non necessariamente.

Assai noiosa fù la prassi burocratica per il trasferimento e la cremazione del corpo, per cui finimmo anche in tribunale per gli atti formali necessari.
Era dura allora sottrarre alla Chiesa ed al ricco sistema delle pompe funebri parte del business di loro competenza! Ora la Chiesa arriva perfino a consigliare la cremazione, almeno nei luoghi dove gli spazi non consentono ulteriori inumazioni…
Ma nel 1986 era pratica quanto mai rara ed inusuale.
Infine procedemmo al cimitero di Staglieno, in assenza di una cerimonia formale, semplicemente accompagnando il feretro al forno ed assistendo alla sua cremazione.
Prima però io, con voce rotta dall’emozione, lessi la breve introduzione di Bertrand Russel al suo libro “Perché non sono Cristiano: eppure amo la vita, ma mi rifiuto di tremare al pensiero del nulla…”

E qui potrebbe concludersi il racconto di Pericle, l’uomo che visse più volte…

Ma c’è un epilogo notevole e particolarmente significativo…
Circa il cui probabile verificarsi il buon Roberto, marito di Elisabetta, dottore commercialista, ci aveva comunque avvertiti: sugli eredi naturali, cioè su noi tutti, figli e nipoti, nonché coniuge Padovana, sarebbe infine piombato quel fisco che mai non perdona e che sempre, ma invano, a Pericle aveva dato la caccia !
Per cui avremmo dovuto correre in massa, tutti, anche i minori, al Tribunale più vicino per dare formale rinuncia ad una eredità…che di fatto non esisteva, se non nelle cospicue tasse che avremmo dovuto accettandola, pagare in luogo di Pericle.

Fù così che una sera tardi, erano quasi le otto, rientrando insieme a casa, io Wanda e Gioel, trovammo il vigile nonché messo comunale fermo al freddo davanti al cancello in nostra attesa. Uso a recapitarci ogni tanto qualche multa ci guardò quasi piangendo e tutto compreso ci disse “questa volta si che l’avete fatta grossa !”.
Io immaginai: lo facemmo accomodare e sedere in cucina, dove lui, pallido ci consegnò un verbale dell’Intendenza di Finanza di Genova per cui eravamo tutti, noi eredi figli, nipoti e coniuge, chiamati in solido a pagare “l’eredità” di Pericle, ammontante ad un debito di circa 360 milioni (dell’86!) verso l’Erario.
Debito che originava da tasse inevase, penali ecc… pari a circa 40 milioni del 1948.
Davanti al messo tapino, spaventato e costernato per tutta la iattura che ci stava cascando addosso, di cui lui ci era latore…ci mettemmo a ridere allegramente…!
Gli stappammo una bottiglia di ottimo merlot, che lui gradì visibilmente e gli raccontai di come la cosa non ci fosse affatto nuova, anzi era attesa e che bastava rinunciare all’eredità per venirne allegramente fuori !
Gli accennai anche del come e perché di Pericle, precisandogli che se avessimo potuto disporre di tutto il denaro da lui lasciato nei vari Casinò d’Europa, diversi di noi avremmo potuto campare di rendita !
L’unica difficoltà poi fù la rinuncia all’eredità per nostra figlia Valentina, non ancora maggiorenne, allora exchange student nell’Ohio (USA), per cui dovemmo seguire un noioso iter burocratico, fra cancellerie di Tribunale ed Ambasciate…

Ma alla fine nessuno di noi….“ereditò” !

A “corollario” del racconto sono doverose alcune precisazioni.
Innanzitutto il personaggio di Piero, più volte nominato ma mai approfondito.

PIERO e gli altri.

Piero era il più giovane dei fratelli, nei confronti del quale Pericle aveva di fatto esercitato la patria potestà dopo la prematura morte di papà Mario.
Piero era cresciuto come il classico “Pierino”, il piccolo di casa cui tutto o quasi si perdona, una ne pensa e cento ne combina, perlopiù coperto dalla mamma Edilia ed invano rimproverato dai fratelli maggiori.
Trascorsa l’adolescenza senza arte ne parte, molto dedito a festeggiare ad oltranza, tra boogy boogy e bagordi, la fine di una guerra che l’aveva visto fanciullo, alla visita di leva gli riscontrarono la TBC, malattia ai quei tempi gravissima, ad alto rischi di mortalità ! Finì in sanatorio a Sondalo, in Valtellina, dove per circa tre anni ebbe modo di calmarsi e di riflettere.
Quando tornò fù poi assiduamente seguito a Genova dal dott. Ferraris, il medico cui io personalmente debbo la vita (v.in questo blog il post del mio racconto “Morfinomane a dodici anni”) e ne venne infine fuori praticamente guarito.
Dopodichè fù sempre, più o meno, l’ombra di Pericle, nel bene e nel male, vivendo anche lui, perlopiù di riflesso ma anche per intima vocazione, le molte vite che di Pericle ho raccontate.
Lo seguì nella fortuna, ma soprattutto nella sfortuna…, a lungo lavorò per lui o con lui, talora lo sostituì in alcuni lavori, più spesso lo affiancò, seguendone grosso modo la parabola discendente.
Non so se Piero, come Pericle, fosse “giocatore”…, ma sicuramente come lui aveva “le mani bucate”. In ogni caso si dedicò anche ai lavori più “strani” ed improbabili, probabilmente anche stimolato dall’opportunità di mantenere moglie e due figli.
Fù infatti venditore di visoni e cincillà per allevamento, imitato con successo dal giovanissimo Mario, mio fratello, che a lui si collegò anche per l’apertura del suo primo negozio di mobili.
Piero infatti ebbe la felice intuizione, credo questa volta del tutto autonoma, di dedicarsi nel momento giusto all’importazione di Mobili Spagnoli, iniziativa che ebbe notevole successo e che gli rese una volta tanto reddito e benessere in abbondanza.
Così come accadde a Mario, in quel di Padova, che però riuscì a svilupparla, conservarla, ampliarla e trasformarla nel tempo, per circa 40 anni, finchè anche per lui arrivò purtroppo il pesante declino.

In occasione della peggiore delle sue defaillance economiche, credo proprio conseguente la cessazione del negozio di mobili, Piero ebbe il suo matrimonio in grave crisi e ci rimase per diverso tempo.
Lui era comunque e ciò nonostante sempre stato molto legato alla famiglia.
Rammento la sua assidua e sinceramente compresa partecipazione ad ogni evento, nascite, matrimoni o funerali. Così come le sue frequenti visite al mio capezzale, quando giovanissimo ero spesso costretto a letto da una lunga malattia e lui passava delle ore a raccontarmi fiabe, la trama dei nuovi più divertenti film appena usciti, che lui aveva visto e che io avrei potuto vedere solo più tardi, una volta che fossi finalmente guarito. Era molto bravo anche a raccontare aneddoti e barzellette, mi aiutò a migliorare nel gioco della dama (era bravissimo) e nel risolvere rebus e parole crociate sulla Settimana Enigmistica.
Un paio di volte, quando ero in salute, venne lui a recuperarmi: in montagna, dove ero andato a sciare con i Fratelli Maristi ma alla sera smaniavo di nostalgia per la mamma…Ed anni dopo, quando più grandicello ero scappato di casa, vagando sui crinali del Monte Fasce ero sceso fino a Nervi, dove mi ero arreso telefonando a casa.
E fù ancora lui, come ho già ricordato all’inizio di questo racconto, ad affiancarmi cercando di consolarmi quando giunto all’Ospedale San Martino di Genova seppi chiaramente che Lidia era condannata, senza speranza.
Ed ancora lui ad avere la forza di sospendere il suo lavoro per affiancare, notte e giorno, senza mai perderlo di vista, il figlio maggiore in comunità, per condurlo con successo fuori dal brutto, ambiguo tunnel della droga, nel quale era immeritatamente finito, giovanissimo ed aitante sportivo, mentre navigava come steward su di una nave da crociera.

Ho voluto citare Piero soprattutto come maggior testimone della romanzesca ed altalenante vita di Pericle, a lui accomunato da assidua frequentazione e spesso dalla condivisione dell’alterno destino.

Silvio morì giovanissimo, lo vidi poche volte, sempre con simpatia, soprattutto dopo quella volta che, avrò avuto sette anni, lo accompagnai al campo della “Nafta” dove faceva un allenamento di calcio indossando la per me allora gloriosa maglia del Genoa.

Edilio, fù da noi sempre considerato tra i Vassallo la... "pecora bianca",
per il suo continuo e costante apparire...normale, non coinvolto nelle "avventure" degli altri fratelli, se non suo malgrado. Come ho avuto modo di specificare in episodi dedicati, sia per evitare a Pericle il peggio, sia da lui trascinato in speculazioni od investimenti ad alto rischio (v. episodi "Ormig Autogrù" e "Casinò di SanMarino).
Purtroppo ha poi finito per avere anche lui uno sfortunato esito economico ed esistenziale, in parte collegato ai danni dell'ultima grave alluvione Genovese, che gli ha disastrato la Tipografia, in parte in conseguenza di un'inevitabile e pesante crisi di quel settore con l'avvento dell'informatizzazione di moduli, documenti, corrispondenza, oltre che a gran parte degli strumenti della pubblicità.

Serafino non era un “Vassallo”, era fratello per linea materna e lo seppi sempre diverso dagli altri, tranquillo e metodico, impiegato di concetto …Ebbi comunque con lui pochissime occasioni di frequentazione.

Vittoria, la sorella maggiore, anche lei di primo letto, la vidi spesso, ma sempre defilata dalle vicende dei fratelli. Con lei visse infine per molti anni la nonna Edilia, la madre di tutti i fratelli. Mi sembrarono sempre donne di altri tempi, quali si vedono nei vecchi film muti, con gli occhi carichi di ombretto, le vesti datate, lunghe, e le pettinature stile “belle epoque”. Il loro manifestarsi era poi stereotipatamente femmineo, delle donne di casa dedite unicamente ai figli ed ad un marito “padrone”.
Ciò che nel caso di Vittoria era assolutamente più che vero !

Poi riuscirei a perdermi nel tentativo di citare altre persone: la bellissima Lucetta, carinissima moglie di Edilio; la buona e spiritosa Liliana, tanto cara a Lidia, come lei molto “naif”; la fascinosa ed intrigante Anita, anche lei una vita a tribolare con Piero, suo marito.
E tanti cugini, nipoti e pronipoti…

Mi scuso con tutti coloro che sto dimenticando o tralasciando (Enrico e Filippo, i superfusti ancor giovani figli di Elisabetta, Clara ed Italo immaturamente scomparso, Anna Pegghi ed Antonio, Cinzia, Gian Luca e Nicoletta, Bruno, ecc…)

Ma voglio infine citare i giovanissimi, perché sono loro ora a rappresentare la continuità e la nostra consolazione per gli acciacchi che, hainoi incombono ed incalzano.

In ordine di età i pronipoti di Pericle:

Edoardo, figlio di Federico e nipote di Mario.
Carolina, figlia di Valentina e mia nipotissima.
Riccardo, figlio di Isabella e nipote di Mario.
Sergio, figlio di Alessandro e nipote di Mario.
Greta, figlia (più esattamente “clone”…) di Gioel, cui assomiglia come una goccia d’acqua, altra mia supernipotissima.
Più altri due in gestazione, pronti/e? nel giro di qualche mese, a Padova per Isabella ed a San Paolo del Brasile per Alessandro.

Fine del racconto.

Con l’auspicio che qualcuno un giorno prosegua il filone di una storia di famiglia, che presenta molti aspetti affatto banali.
(Sicuramente più che “originali” per quanto riguarda Pericle…)


Lidia e Pericle al mare negli anni '50 (forse a Lerici)