martedì 3 luglio 2012

CAT BOAT 3^ parte



AGLAJA 3
3^parte

(a destra: 18 piedi australiano in regata)


Dopo il "drascombe" ebbi altre derivoni sui 5 metri: una tranquilla ed anonima "Fusilla", buona per il campeggio marittimo ed un assai prestante e performante "Ponent", che fù il coronamento della mia episodica e relativamente breve carriera di velista, avendolo posseduto ed usato in concomitanza ad Agalja, il cabinato "cat boat" oggetto di questa storia.
Come ogni altra mia barca il Ponent lo acquistai usato, d'occasione, a Milano, completo di carrello stradale. Scafo lungo (5,10 mt.), molto invelato, progettato in Francia come barca da regata per 2/3 persone, dotato di attrezzatura per "andare al trapezio"(cioè con un membro di equipaggio appeso esternamente su di un lato, a far da contrappeso allo sbandamento dello scafo, per evitare la scuffia, cioè il
rovesciamento, nelle andature più esasperate, al traverso e di bolina).
Deriva in grado di dare molte soddisfazioni, anche ai velisti più esigenti in quanto a velocità e manovrabilità. Chiaramente bisognava essere un pò bravi, ed io forse lo diventai, o quasi, comunque mi ci sentii, bravo.
Il più delle volte, uscivo da solo ed in certe condizioni non era facile ! Sopratutto manovrare il fiocco a prua, se s'incattiviva una scotta (fune che serve a regolare la vela ed a virare o strambare, cioè cambiare direzione).
Ciò che mi accadde una volta a Chiavari, vicino a riva, stranamente in estate quando il vento nel Tigulio si fà perlopiù desiderare: un forte colpo di vento portò in massima tensione le vele dopo una virata, mentre ero ancora vicino agli scogli. La barca sbandò di brutto ed io non riuscivo più a cazzare le vele agendo sulle scotte troppo tesate. Rimediai col timone, cercando di orzare sino a mettermi contro vento. Ma mentre così cercavo di manovrare, la raffica rinforzò ulteriormente e l'attrezzatura in testa d'albero non resse: come già mi era successo alle Bocche, in Sardegna, una redancia si ruppe, la relativa sartia mollò e l'albero finì in mare ! Questa volta non si era rotto l'albero, ma
la sua sede d'incastro nello scafo, la cui parte più alta, nella copertura della piccola tuga che copre la prua dello scafo, si era spaccata.
Era un alloggiamento in compensato marino lamellare di circa 8 cm. di
spessore, robustissimo, ma non ce l'aveva fatta a tenere. Tuttavia meglio quello che non la rottura dell'albero in vetroresina !
Perse le vele, anche questa volta mi ritrovai nella calma relativa di un mare appena increspato, ma con vento teso che mi arrembava verso la scogliera...
Afferrai subito i remi e mi allontanai quel tanto che poi mi consentì il tempo di armare il motorino fuoribordo che tenevo nascosto in tuga, appositamente per simili eventualità. Che partì subito, non era il famigerato catorcio Jugoslavo già in dotazione al Drascombe…
Riportata la barca a riva subito partii alla ricerca di una soluzione.
Sapevo che a Chiavari non avrei mai trovato un falegname bravo e disponibile come mi era capitato in Sardegna, ma ci provai, avendone conferma: niente da fare.
A Chiavari e Lavagna c'erano fior di cantieri e mastri d'ascia, pronti ad intervenire se assai remunerati su "ferri da stiro" e/o golette di almeno 30 piedi, ma che non si sarebbero mai sprecati per la mia barchetta, se non in tempi lunghissimi e tornando più volte a pregarli e poi pagarli profumatamente...
Ciò che mi ribadì nel mio consueto "fai da te": trovai un rivenditore che aveva un pezzo di legno lamellare di qualità e dimensioni giuste, che me lo fece pagare caro come se fosse stato una reliquia della croce che aveva ospitato Gesù Cristo suo malgrado.
Usando i pezzi rotti come dima e lavorando di fino sega, raspa, levigatrice orbitale e carta vetrata a mano libera riuscii in qualche ora a ricostruire il pezzo che mi serviva, nuovo e identico all'originale.
Il pomeriggio del giorno dopo ero di nuovo in giro a far danni con il mio "Ponent", una piccola ferrari del mare che traeva il suo nome dal forte vento che soffia in Camargue, accompagnandosi al Mistral o Maestrale, tanto temuto dai naviganti nel golfo del Leone !
Ed era per me gratificante constatare l'apprezzamento, talora esplicitamente manifesto, per cui venivo spesso considerato mentre partivo e rientravo nel lungo canale del porto di Chiavari, dal grande scivolo di ponente, lavorando quasi sempre da solo, a spostare la barca (quanto era pesante portarla su per la salita al ritorno !), armarla e percorre mezzo miglio di stretto canale, rigorosamente a vela (sarebbe stato proibito, ma nessuno ebbe mai il coraggio di dirmi nulla, vista la perizia con cui mi muovevo), facendo la barba a barche, barconi e barchette, in fila all'ancora a decine, spesso muovendomi contro vento, un esercizio di bolina in uno spazio ristretto che equivaleva ad una sorta di virtuosismo: anche questo è "andare a vela"!
Come diceva Govi a proposito dei ferri da stiro ? "Ti sciacchi un pumellu e u barcu u và, ti ne sciacchi un atru e u barcu u vira..."
( schiacci un bottone e la barca parte, ne schiacci un altro e la barca gira...).

Ma eccoci finalmente ad Aglaja, il mitico "Cat boat"in legno dalle tante vite, che ancora oggi, dopo più di 40 anni, forse quasi 50, ancora naviga.


Negli anni '60 un signore Lombardo, narra la leggenda, si trovò nel Sud degli Stati Uniti, forse in Florida, forse a Saint Louis, forse sul Missisipi o dalle parti del suo delta ed ebbe modo di conoscere questo particolare tipo di imbarcazione, molto robusta e capace, piatta di poppa, larga ma sorprendentemente filante alla linea di galleggiamento, nonostante la sua notevole stazza, assai più pesante di quanto normalmente non è un natante di 8/9 metri di lunghezza.
Lo scafo dei Cat Boat in oianta , fatte le debite proporzioni, non ha un disegno molto diverso dai mitici 18 piedi Australiani, vere e proprie macchine da corsa a vela, lunghe sei metri, larghe ed apparentemente tozze, con la poppa piatta, tagliata di netto, dotate di una velatura d'incredibile sviluppo e, su entrambi i lati, di ampi sbalzi attrezzati, sporgenti per almeno due o tre metri per parte, sulla cui copertura a rete si raduna tutto l'equipaggio, ben 5 marinai, per bilanciare il fortissimo sbandamento cui la barca è normalmente soggetta. Perfino il timoniere agisce stando la in cima, arrampicato a due o tre metri fuori dalla scafo, manovrando tramite una lunghissima prolunga della barra del timone !
(v.immagine a lato)
Questo per dire che anche barche apparentemente tozze possono risultare eccezionalmente performanti.
Ovviamente il Cat Boat, molto solido e pesante è ben lungi dal poter navigare in planata (cioè “sopra” la superfice dell’acqua, a mò di motoscafo), come arrivano normalmente a fare i 18 piedi Australiani. (nella foto: un "18 piedi" in planata nella baia di sidney)
Il Cat Boat naviga in “dislocamento”, cioè dentro all’acqua, spostandone con il suo movimento una massa teoricamente pari alla sua stazza, per ogni lunghezza percorsa.
Che è il tipico procedere di quasi ogni natante, a parte motoscafi, aliscafi, overcraft, catamarani e trimarani ed anche qualche monoscafo a vela dallo scafo appositamente predisposto per quell’andatura.

Andare a vela su di un Cat Boat è come rivivere i vecchi tempi della navigazione, perlopiù sicura e tranquilla, procedendo a velocità che raramente superano i 5 nodi (9 km/ora), senza subire più di tanto gli sballottamenti delle onde e magari godendo la placida bellezza dei panorami circostanti, come a mè capitò di fare più volte in giro per la laguna Veneziana, dentro e fuori, in mare aperto e poi lungo il ramo Nord del lago di Como, tra Colico e Bellagio, Menaggio.

Ma non anticipiamo i tempi.
Quel signore Lombardo in viaggio nel Sud degli USA s’innamorò dei Cat Boat, se ne procurò i disegni scostruttivi e , sempre narra la legenda, li portò in Italia al cantiere Sartini, specializzato in barche in legno old style, che su sua commissione gli fabbricò un piccolo Cat Boat, lungo circa 6 metri, largo 2,50, pesante almeno una tonnellata.
Ma anziché la classica, bellissima vela aurica, armata sul “picco”, sorta di antenna tipo “boma”, ma applicata superiormente all’unica vela, quel signore volle installata l’armatura “Marconi” tipica degli “sloop”, cioè due vele: una grande randa verso poppa, innestata sul basso boma orizzontale, ed il fiocco armato a proravia, davanti, perlopiù
manovrabile dal pozzetto tramite un gioco di scotte, funi appositamente attrezzate per spostare quella vela da un lato all’altro della barca quando si vira o stramba (la virata è quando la barca gira di prua, la strambata quando lo fa di poppa).

(a destra: sloop con classica velatura "Marconi" o "Bermudiana")


Ma dopo qualche anno si stufò del giocattolo e lo mise in vendita.
L’amico principale soggetto di questa storia, sempre romanticamente curioso di cose strane e datate l’ho acquistò, coinvolgendo in società un altro suo amico, con il quale trasferirono il cat boat alle Baleari, sull’Isola di Menorca, dove per qualche anno l’Aglaja (quello era il nome del Cat Boat), ebbe la sua epopea estiva al servizio dei vacanzieri che là possedevano casa. Presto ne divenne l’unico proprietario, il suo socio confermandosi per la scarsa propensione alla navigazione, essendo altrimenti assai più propenso alla meditazione.

Aglaja là ebbe le sue brave avventure, circumnavigò più volte l’Isola e fece forse anche una traversata sino a Majorca, andata e ritorno.

(Cala Morell, sull'isola di Menorca, Baleari, dove
Aglaja era normalmente ormeggiata in estate.
In alto sulla destra, sopra la scogliera, si intravedono alcune ville: la prima a sinistra è quella dell'amico, secondo proprietario della barca)
Poi il secondo ed unico proprietario, tendenzialmente volubile nelle sue passioni perché facilmente catturato dalle novità, di cui fù sempre curioso, decise di riportare l’Aglaja sul lago Maggiore, dove continuò ad usarla, ma sempre più episodicamente.
Sinchè un suo cognato si offrì di acquistarla.
Dimorando in quel di Novara era costui comodo per il lago Maggiore, ma non possedeva in realtà reali propensioni per la vela, essendo mentalmente assai più conformato per l’uso dei “ferri da stiro”…
Scarso com’era d’inclinazione e di cultura finì con l’attrezzare il Cat Boat con tutta una serie di dotazioni decisamente esagerate per quella piccola barca: spendendoci una piccola fortuna vi installò un motore entrobordo ( a benzina !), il girofiocco (sistema di avvolgimento della vela di prua che ne consente un più rapido e facile utulizzo), il frigorifero e svariati gadget ulteriori.


(infilata del lago maggiore con le isole Borromee)


Dopodichè la usò forse tre volte (sempre e solo a motore, perché di vela proprio non ne masticava) e decise infine che quella era “una roba da pellegrini”…, sua tipica espressione per indicare la misera essenza e connotazione della cosa.
La trasferì nel capannone della ditta e lì l’abbandonò ad una veloce fatiscenza.

Dopo qualche anno, non so come o perché, ebbi modo di raccontare di quella barca a mio fratello. Io non l’avevo mai vista, ma gliela raccontai così bene e tale era ormai la sua crescente passione per la vela, che lui decise di venire da Padova sino a Novara per vederla e…comprarla. Abbandonata da tempo nel capannone non era il massimo
dell’attrattiva, ciònondimeno finì con l’acquistarla e trasferirla in un porticiolo della laguna Veneta in quel di Sottomarina, in prossimità di Chioggia.
Dove fù messa in acqua e subito, rapidamente…affondò…!
Non fù mai chiaro che cosa avesse combinato il precedente proprietario Novarese o chi per lui, fatto è che c’era qualcosa di “aperto” nella parte inferiore dello scafo e anche di…marcio, come poi risultò da verifiche adeguate dello scafo riportato a galla.
Smoccolando adeguatamente mio fratello riuscì tuttavia a recuperare la barca ad una discreta condizione di sicurezza, grazie anche ai progressi della tecnica, il west system in particolare: un costoso preparato che permette di recuperare a nuovo perfino il legno marcio ! Ci lavorò con il figlio per diverse giornate e poi finalmenmte iniziò ad usarla, dentro e fuori la laguna Veneziana.
E fù una vera e propria epopea !

Mio fratello infatti, a differenza del precedente proprietario totalmente inadeguato, aveva grandissime propensioni per la navigazione a vela ed usò quel romantico natante per anni, un’infinità di volte, all’interno della laguna, facendo a vela la barba alle “bricole” ( i tipici pali affioranti che delimitano i canali per la navigazione ed evitano alle barche di finire in secca nei più bassi fondali) e fuori, in mare aperto,
perlopiù girando intorno alla lunga isola di Pelestrina, sino al Lido ed al canale di Malamocco, talora spingendosi fino a Venezia, Murano e Burano…
Svariate volte gli tenni compagnia, alcune appositamente raggiungendolo sin da Como dove abitavo.
Alla fine quel navigare poteva sembrare un po’ noioso, data la monotonia dell’itinerario, perlopiù sempre quello, senza alternative.
Ma il fascino della Laguna finiva sempre con il catturarci, mutando con le stagioni ed il clima.
Mio fratello poi non conosceva limiti, uscendo tranquillamente anche in pieno inverno, con il gelo, la cui percezione triplicava per l’umidità !
Egli poi come e più di me si piccava di non usare il motore, possibilmente mai, per cui capitava che ci ritrovassimo a risalire il vento in una miriade di “bordi” all’interno dello stretto canale che costeggiando Pellestrina ci riportava verso Sottomarina, sfiorando le bricole e le abitazioni prospicenti la laguna.

E’ quello infatti un ambito di navigazione del tutto particolare, come navigare in un fiume, perché lo stretto canale costeggia sempre l’isola, a pochi metri dalle case.
Così che spesso si è affiancati da qualche auto, rare biciclette, pedoni e si possono scambiare saluti e battute con la gente a riva, ci si può facilmente ormeggiare per andare in trattoria o anche solo andare a prendere un caffè.
Le case sono tutte coloratissime, basse, fiancheggiate da orti e da postazioni per la pesca a bilancere. In laguna poi, oltre le bricole, si sprecano le palafitte che ospitano i capanni dei pescatori e l’allevamento dei mitili.
Fuori invece, c’è il mare aperto, cui si accede tramite due canali posti alle estremità dell’Isola, circa 10 km. uno dall’altro. Il maggiore è quello di Malamocco, largo 100/150 metri e lungo circa un chilometro, per cui transitano anche le grandi petroliere dirette ai depositi costieri di Marghera.
(vista aerea dell'isola di Pellestrina: a destra il mare
aperto, a sinistra la laguna)
E fuori può capitare che il mare s’incavoli di brutto, sulla spinta di venti orientali tesissimi, la Bora ed altri, sulla spinta prepotente in discesa dai lontani Carpazi.
Possono arrivare sulla bassa costa anche onde tipo tsunamy, come accadde nel 1967, quando il mare ne devastò gran parte, allagando con la sua acqua salata anche parte degli arretrati campi coltivati e distruggendo le case più vicine al mare.
A monito di quell’accadimento c’è ancora un mercantile arenato, una sorta di Costa Concordia in sedicesimo, ma meno inclinata e completamente posata fuori dall’acqua, arrampicata sulla spiaggia all’estremita occidentale dell’Isola di Pelestrina, subito uscendo dal canale, dove la depositò incredibilmente l’onda anomala…

Ed in quei luoghi, all’ingresso del canale di Malamocco, io vissi il primo dei miei due “momenti critici” di navigazione a vela. Due episodi che si verificarono entrambi a bordo dell’Aglaja, il secondo alcuni anni dopo, sul lago di Como.
Avventure che potrebbero sembrare banali, ma che nella mia purtroppo limitata esperienza di marinaio velista furono assai significative, anche per i rischi che implicarono, decisamente da non sottovalutare, soprattutto il primo, all’ingresso della Laguna Veneziana.
Come racconterò nella prossima puntata.

The lonely dolphin
(qui sotto la piantina della laguna Veneziana con l'isola di Pellestrina nella parte bassa,
a sinistra tra le indicazioni "Porto di Malamocco"e "Porto di Chioggia").



































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