martedì 3 luglio 2012

Io, il mostro...



(Alla base della casa si intravede, la siepe di cotone astra che nasconde la "muraglia" oggetto del racconto, alta 2,5 mt, e lunga c.a 80. La foto risale ad alcuni anni fà, oggi la siepe nasconde completamente la struttura, e gli alberi da frutta antistanti sono cresciuti di almeno 4 volte. )

IO...IL MOSTRO

Come dicevo nella presentazione del racconto di “Gilliat…il mostro”
(v. post su questo blog), il romanzo di Victor Hugo fù spesso presente nella mia immaginazione, ed anche ispirazione di mie piccole imprese più faticose, impegnative e/o audaci.

Quella di gran lunga più coinvolgente fù la costruzione di una parete di contenimento, una muraglia di traversine, lunga circa 80 metri, alta 2 e mezzo, fatta interamente..."a mano", senza aiuti di sorta.
Che tuttavia non implicava particolari rischi vitali, se non quello di crepare di...fatica. Oltre a discrete probabilità di traumi da impatto e sopratutto da sovracarico osteomuscolare. Ciò che poi tutto si verificò, a parte il crepare di fatica, ma ci andai vicino !

Già costituiva una "sfida" la grande, importante casa che attorno al 2.000 iniziammo a costruire sulla collina d'Oltrepò Oavese, dove da 8 anni viviamo.
Sfida da diversi punti di vista: finanziario (per i costi che implicava),
normativo (per i complessi ed articolati iter burocratici inerenti i numerosi permessi specificamente necessari) e...legali (per il noiosissimo boicottaggio fattoci da un maledetto, vecchio pazzo maniaco, sui cui terreni insisteva la servitù di passaggio che necessariamente dovevamo percorrere).
Tutte battaglie infine vinte, faticosissima, costosa e molto stressante sopratutto l'ultima indicata, quella “legale”.

Sfida nella sfida fù quella di realizzare quel "muro di contenimento", funzionale alla realizzazione del bel giardino pensile, panoramico con piscina che completa al meglio la casa verso il panorama a valle, sul sottostante torrente e sulle prospicienti colline.
La casa è sita infatti su di un pendio collinare, a mezza costa; pendio che non è particolarmente ripido, ma che se non fosse stato normalizzato non avrebbe consentito il miglior godimento del grande giardino in programma, soprastante il frutteto, che con orto e cortile completa i 10.000 metri della proprietà.
Che sotto la casa degrada con una pendenza del 15-20 %, cioè circa 2,5 - 3 metri di dislivello sui 15 mt. c.a di profondità del giardino, e poi si allarga ad Ovest, per uno sviluppo totale di circa 80 metri lineari.
Complessivamente circa 1.500 metri quadri, con un volume di riempimento di almeno 3.000 metri cubi !
Di cui solo una minima parte furono derivati dal materiale di scavo per le fondazioni della casa: tutta l'altra terra mancante dovette essere procurata altrove e lì riportata. Ma per contenerla, che non franasse nel pendio, occorreva ovviamente un sostegno, un muro di contenimento.
Problema: l'area in cui quel muro avrebbe dovuto collocarsi era "zona , verde", per cui non si poteva costruirvi nulla che avesse a che fare con cemento, calce, mattoni ecc...
Le uniche alternative possibili erano: un costosissimo sistema di "gabbioni" prefabbricati, definiti "geo terra" o qualcosa del genere, esteticamente discutibili e di efficacia relativa; oppure una solida palizzata in legno, priva tuttavia di base di ancoraggio nel calcestruzzo proibitissimo !
Non eravamo poi nella condizione di poter fare la minima disgressione dalle norme, perchè costantemente "controllati" dal vecchio pazzo nulla facente, la cui principale, unica occupazione fù per qualche anno darci addosso, sporgendo infinite quanto risibili denuncie verso il nostro operato, regolarmente tutte finite in nulla.

Studiai attentamente la situazione, mi informai, mi prefigurai tempi e metodi e poi decisi per la soluzione "eroica": avrei costruito io quel muro, magari con l'aiuto di qualche manovale, utilizzando traversine di recupero delle ferrovie, materiale assai affidabile, poco costoso e di semplice utilizzo.


(a lato: catasta di traversine in legno del tipo ed in quantità analoghe a quelle da me utilizzate)


In Brianza c'era un grosso deposito di traversine di recupero: un privato che ne acquisstava vagonate, a lotti alle aste delle FFSS, per rivenderle per usi analoghi a quello per cui io ero interessato.
Una traversina standard, in rovere di quercia, impregnata di cretosolo, derivato del catrame, per renderla impermiabile ed imputrescibile, teoricamente poi passata in autoclave per toglierle parte della tossicità (come da norma di legge), misura 240 cm. per 40, per 25 e pesa circa un quintale. Le variazioni da questi standard sono minime e riguardano quasi solo il peso, che può scendere o salire di una ventina di chili.
Io avevo calcolato che me ne sarebbero servite circa 250, cioè 25 tonnellate !
Vidi che poteva andarmi bene anche una "quarta scelta": sarebbe stata comunque funzionale, anche se esteticamente non il massimo. Ciò che era irrilevante perchè l’opera finita era destinata ad essere assolutamente mimetizzata nella vegetazione, come ora è in effetti, dopo 9 anni completamente ricoperta da una magnifica siepe di "Cotone Astra". Costo, per quantità, 8 mila lire a traversina.
Ne comprai 270, per riempire tutto il TIR con rimorchio che me le avrebbe portate a destinazione, 2 milioni e 500mila lire, trasporto incluso. Nulla !
Tantissimo sarebbe invece stato il lavoro da compiere per utilizzarle al meglio !

Il TIR arrivò con appuntamento dopo qualche giorno. Finito lo scarico nella zona predisposta, la più comoda possibile per l'utilizzo, risultò una...montagna di traversine alta 5-6 metri, minacciosamente incombente alla vista anche dal sottostante ponte sul torrente, lontano circa 300 metri. L'autista mi chiese chi avrebbe fatto tutto quel lavoro, ed io risposi : più che altro io.
Mi guardò tra l'incredulo ed il commiserevole e mi augurò "buon ... divertimento !".

Il lavoro era notevolmente ed aggravato da diversi fattori.
La natura del terreno, tutto avallamenti scoscesi, dato il gran numero di camionate di terra di riporto nel frattempo già scaricate, che andò avanti quasi due anni, man mano che veniva disponibile il materiale dalle varie zone di scavo.
Ciò non permetteva che in minima parte l'uso di mezzi meccanici per il trasferimento delle traversine lungo la linea di posa.
Occorreva poi un sistema di sollevamento, almeno per le file più in alto.
Bisognava quindi provvedere gli scavi, uno ogni 120 cm., per posizionarvi le traversine verticali contro cui avrebbero poi poggiato quelle orizzontali a far barriera di contenimento.
Occorreva anche fissarle: molto bene quelle verticali, nei rispettivi buchi di alloggiamento (proibito il calcestruzzo!); provvisoriamente quelle orizzontali, almeno fintanto che non fossero state definitivamente bloccate dalle camionate di terra del riempimento.
Tutta robina da niente...

Studiai le possibili soluzioni, organizzandomi di conseguenza.
L’ideale sarebbe stato munirsi di una miniruspa cingolata, in grado di muoversi su quel terreno, di scavare, di sollevare le traversine e trasportarle. Costo allora improponibile (oggi forse accessibile, magari cercando su internet un attendibile usato), se non andando a noleggio. Ma farlo per i soli week end e per svariati mesi, con i relativi problemi di trasporto del mezzo avanti e indietro, non ci stava proprio.
A parte i costi, comunque sempre assai elevati.(al lavoro!)

Gira e rigira c’era una sola soluzione: fare tutto a mano ! O quasi.
Per le buche d’impianto degli elementi verticali, vanga, piccone e badile. Poi anche la “mazza”, pesante 7 chili, per impiantare bene, tutto intorno alla traversina-palo, le pietre, i pietroni necessari a blocarla molto saldamente nella giusta posizione verticale, leggermente inclinata verso monte. Per calcolare la quale posizione il “filo a piombo”, sofisticato strumento “elettronico” in uso dalla notte dei tempi, curando bene anche allineamenti e “quote” ( per queste ultime la supertecnologica “livella” a bolla d’aria, quella recitata anche da Edoardo De Filippo, abbinata ad una lunga stagia, sorta di enorme righello di alluminio, leggero ed affidabile, per controllare i “piani”, le linee, gli spigoli). Tutta questa attrezzatura procurabile al costo di qualche decina di migliaia di lire.
Per lo spostamento delle traversine (100 chili cadauna), provai diverse tecniche: trascinarle per terra con l’aiuto di un piccone, impiantato in uno dei fori che avevano contenuto i bulloni di ancoraggio alle rotaie; legarle al gancio traino del mio Pik Up Mitsubishi, potente fuori strada in grado, entro certi limiti, di calvalcare quel terreno sconnesso; issarle su di una cariola, in precario equilibrio per la la lunghezza dei travi da spostare…con ognuno di questi metodi riuscii, più o meno faticosamente a movimentare decine di traversine.
Poi mi venne l’idea dei “pattini: se avessi applicato delle ruote alle estremità di ciascuna traversina, avrei potuto assai più facilmente condurla a destinazione !
Acquistai così due grosse, robuste morse da 60 cm., a ciascuna delle quali feci saldare due solide ruote pivoettanti dal portinaio del residence in qui abitavo, fabbro a tempo perso. Alla morsa anteriore feci applicare anche una sorta di timone a barra, con due maniglie, buone per la trazione.
In pochi minuti, sollevando appena ogni traversina ed applicandole i “pattini a morsa”così congegnati, ero in grado di trainarla ovunque mi occcoresse, abbastanza facilmente, a seconda della natura dello sconnesso su cui dovevo transitare.
Ciò tenendo conto che, per i tanti mesi che durò il mio lavoro, continuò nel frattempo il riempimento di terra riportata dai camion, 5 metri cubi alla volta: centinaia di camions, alla fine quasi 300 !

(foto a lato: modellino di capra con paranco attrezzato)

C’era poi il problema del sollevamento !

Che non si poneva per le traversine da posizionare verticalmente, dentro ai buchi, e neppure per i primi 2-3 corsi orizzontali: sollevando prima da un lato e poi dall’altro (avendo già appoggiato in quota il precedente), riuscivo a sollevarle a forza di braccia, spalle, gambe e…quant’altro.
Ma per i corsi più alti diventava un lavoro eccessivo, se fatto sistematicamente, anche per un sessantenne peso massimo muscolarmente supeattrezzato, come io ero.
Allora mi venne in mente la “capra”!
Che non è solo un ovino transumante, produttore di latte e formaggi.
E’ anche un semplice ma efficace attrezzo da sollevamento, anch’esso utilizzato dalla notte dei tempi: l’antenato della moderna “gru”. Oggi ancora in uso negli ambienti rurali di quasi tutto il mondo: consiste in tre pali, tre “gambe”, più o meno divaricate a triangolo, sia in pianta che in verticale, riunite in alto da congrua fune o chiodi,
subito sotto il quale vertice apicale pendono le carrucole di un paranco da sollevamento, rapportate in maniera tale da consentire il sollevamento di ciò che s’intende innalzare.
Commissionai la mia “capra” in ferro, pali alti tre metri, al mio fabbro portinaio, progettandola di facile posizionamento e regolazione, con adeguati snodi al vertice.
Il paranco già lo avevo da tempo, acquistato ai grandi magazzini Bossi di Saronno anni prima, per agevolare il recupero a riva delle mie barche a vela, via via che le cambiavo, tendenzialmente sempre pù pesanti.
Costo totale degli attrezzi realizati ad hoc: meno di 100 mila lire.

Così organizzato, superata la fase sperimentale del lavoro (tempi e metodi), ero in grado di posizionare mediamente 3 – 4 metri di palizzata completa per ogni week end.
Iniziai il lavoro a Marzo, lo terminai a Novembre. Circa 8 mesi, lavorandoci quasi tutti i week end e per tutte le vacanze !

Non abitavo sul posto (per fortuna, altrimenti conoscendomi mi sarei ritrovato spesso a fare quel pesantissimo lavoro anche alla sera di molti giorni feriali).
Abitavo a circa 150 km di distanza, 300 andata e ritorno. Vi arrivavo perlopiù il Venerdì pomeriggio, od il sabato mattina molto presto, ne ripartivo la Domenica, nell’ora di pranzo, oppure il Lunedì mattino, all’alba.
La domenica pomeriggio, rientrato a casa, avevo giusto la forza di fare una lunga nuotata in piscina (e/o una lunga seduta di streching) per tentare di riassestare ossa, tendini e muscolatura, duramente provati da tanta fatica, e poi sbragarmi in poltrona sino all’ora di andare a letto.

Durante quell’impresa, per me epica, mi accompagnò ed ispirò sempre moralmente il ricordo del racconto di Gilliat a “le Roches Douvres”, alle prese con il recupero del motore della Durand affondato. Epica perché si trattava di scavare con piccone e vanga decine di buche, infilarci dentro traversine da 100 chili, sollevate verticalmente a mano, e bloccarvele poi dentro, in posizione corretta, con grossi sassi, macigni pestati dentro anch’essi a furia di colpi di mazza, avendoli compattati con la terra ricavata dal buco.
Grossi sassi e macigni tutti recuperati nel terreno circostante, residuati dallo scavo di fondazione ed in parte anche arrivati con la terra di riempimento portata dai camion.
Per estrarli occorreva almeno in parte scavare, comunque strapparli alla terra dove erano incastrati.
Occorreva poi sportare trascinandole, centinaia di traversine del peso medio di un quintale, per decine di metri e sollevarle per posizionarle orizzontalmente in corsi sempre più alti, appoggiate correttamente al lato interno di quelle già rizzate e bloccate in verticale e ad esse legarle con il fil di ferro, opportunamente stretto.

(Procedendo verso la fine dell'opera)
Tutto ciò a formare una barriera alta mediamente due metri e mezzo sopra il terreno sottostante, con uno sviluppo in lunghezza di circa 80 metri.

Una volta terminato, per maggiore opportuna sicurezza provvidi ad imbragare ogni singolo trave verticale alla soprastante scarpata con cavi d’acciaio da 1 cm. di diametro, tramite appositi picchetti impiantati a monte per circa un metro di profondità, contro i quali piazzavo altri sassi per aumentare la tenuta. Il tutto veniva poi comunque definitivamente bloccato dalle tonnellate di terra che i camion continuarono a riportare, fino al totale riempimento del terrapieno.
Su cui ora insiste un bel giardino verde e piantumato, a sbalzo sopra il sottostante frutteto (180 alberi, sempre da me stesso impiantati, ora alti oltre 4 metri, che producono quintali di mele, pere, albicocche, prugne, ciliegie, pesche e qualche altro più strano frutto, per la selezione iniziale voluta da mia moglie).
Per il pesante lavoro d’impianto del frutteto, ma solo per quello, ebbi il contributo di un mio baldo nipote, che scavò le buche per una cinquantina di alberi da frutta.
Per la palizzata mio figlio venne ad aiutarmi con le trasversine un paio di mezze giornate. Decidendo poi che non era cosa per la sua sofferente discopatia, facendosi anche convinto che assentandosi mi avrebbe reso la…soddisfazione di poter infine io affermare: “ho fatto tutto da solo” !
Ciò che ora faccio, a pieno titolo !
Ma non era esattamente mia ambizione. Avevo anche cercato qualche mercenario che mi aiutasse: quando avevo inziato a costruire la casa più di uno era venuto a proporsi, ma quando poi videro il lavoro specifico che stavo facendo e…come lo stavo facendo…si defilarono rapidamente: mai più visti, spariti per sempre.


Oggi avrei molte più opportunità di collaborazione: in zona sono arrivate decine, centinaia di ex russi, soprattutto Ucraini, che a sette euro all’ora e magari un cicchetto alcolico a fine lavoro, se opportunamente indirizzati e controllati sono disponibili a lavorare duramente per intere giornate di 10 ore. Con l’aiuto di un paio di loro ed il noleggio di un ruspino cingolato oggi potrei svolgere tutto quel lavoro nello spazio di poche settimane, risparmiandomi così tutto il logorio tendineo, muscolare, osseo e cartlagineo che poi in realtà ebbi in qualche misura a subire.

Ma molto sostenuto dall’epica, romantica sfida di emulare, almeno nello spirito dell’impresa, il Gilliat Di Victor Hugo: lui solo, contro la furia del mare ed i mostri sottomarini per compiere l’impresa impossibile; io solo, sulla collina dell’Oltrepò, per assolvere il mio duro compito quasi…impossibile !

Perché tale era inizialmente giudicato da tutti, e così in fondo temuto anche da me stesso: quando avevo visto quell’enorme catasta di traversine da un quintale l’una, 270 enormi travi (chissà perché “traversine”, con il diminutivo), ero sato anch’io molto scettico sull’esito di quel lavoro…

Ma poi, “alea iacta est”, avevo iniziato e mi aveva preso il gusto della “sfida”!
Non solo fisica, ma anche mentale: saper resistere a tutta quella fatica, giungere al traguardo dell’opera finita, soprattutto trovare le “soluzioni” per compierla al meglio.
Il fatto di aver reinventato strumenti antichi come la “capra”ed il “paranco” ed aver inventato ex novo i “pattini” a rotelle da applicare ai travi per assai meglio trasferirli,
erano tutte cose che mi alleviavano anche…moralmente, la frustrazione della fatica.
Veder poi crescere,anche se lentamente, la mia piccola “muraglia cinese” do it youself, era ugualmente gratificante.

Nel frattempo, a monte, fioccavano le scommesse !
Titolari ed operai della piccola impresa che mi stava costruendo la casa, quando avevano visto quella montagna di traversine e sentito le mie intenzioni mi avevano guardato con aria smarrita, indecisi se chiamare la neurodeliri o mettersi palesemente a ridere. Col passare del tempo furono poi invece preoccupati che io potessi impazzire del tutto o schiattare definitivamente, sotto la mole di quell’immane sforzo, prima di averli pagati per il lavoro che loro stavano compiendo.
Le scommesse riguardavano appunto il fatto, ritenuto totalmente improbabile, che io fossi riuscito ad arrivare in fondo alla mia opera o che fossi crepato prima di fatica.
Possibilità quest’ultima ritenuta inizialmente assai più certa che probabile.
Nessuno di loro infatti, poi mi confessarono, avrebbe all’inizio scommesso due lire su di me vivo e vincitore. Ma poi, lentamente con il passare delle settimane, le mie quotazioni crebbero: dieci a uno (dieci che non ce la fa, uno che ci riesce !), dieci a due, dieci a tre…e così via.
Ricordo che una volta, dopo una giornata più lunga e faticosa del solito, risalendo dal mio “cantiere”, ebbi a confessare ad uno di loro “Questa sera sono un po’ stanco” e lui mi rispose con enfasi :”E meno male !!!”, con ciò constatando che anch’io, in fondo non ero indistruttibile come poteva sembrare.

Infine, dopo circa 8 mesi, il lavoro fù compiuto e la mia scommesa con me stesso, la mia sfida vinta. Ci avevo lavorato per circa 80 giorni effettivi, messi insieme fra weekend e vacanze, almeno 700 ore di duro lavoro !
Ma grande era anche la soddisfazione di aver trovato, “inventato” le soluzioni adatte alla situazione, sicuramente di gran lunga le meno costose.

Oggi non lo rifarei, non solo perché non ne avrei più assolutamente le forze, ma molto perché avrei, come dicevo, adeguate alternative.
Per non parlare degli acciacchi sopravenuti, sicuramente aggravati da tutti quegli sforzi.
Ricordo un trauma, emblematico: il mio braccio destro era già compromesso da un paio di incidenti, sforzi da sollevamento effettuati per evitare il peggio in due diverse occasioni: tendini in parte lesionati. Per non parlare del “gommito del tennista”, sport quanto mai deleterio che per oltre ventanni mi ero ostinato a praticare.
Ma funzionava ancora benissimo, il braccio, soprattutto a caldo (i dolori li sentivo poi la sera…). Mi trovai così alle prese di un masso decisamente più grosso del solito, almeno 120 chili. Mi chinai ad abbracciarlo, piegando adeguatamente le ginocchia, le braccia tese a circodarne la presa, la schiena preventivamente protetta da un grosso cinturone in vita. Imbragato così il carico mi rialzai sostenendo lo sforzo, ma quando fui del tutto risollevato sentii come una terribile coltellata al bicipite destro: emisi un forte urlo che fece accorrere gli operai dal cantiere e mollai a terra quel gran peso.
Mi ero strappato il muscolo ! Ancora adesso, dopo dieci anni, se gonfio il bicipite si forma al suo centro una sorta di “gnocco” che quasi ne enfatizza il rigonfiamento.
Per far passare il dolore mi spruzzai abbondantemente con la bomboletta di ghiaccio secco e riposai…almeno un quarto d’ora.
Dopo di chè ero già alle prese con pietroni più piccoli, appoggiandomi soprattutto a sinistra, comunque continuando il lavoro. La sera nuotavo il mio solito chilometro abbondante in piscina.
Ma mentre ora sto scrivendo, in questo momento, avverto dolori ai tendini delle spalle, che periodicamente devo trattare con agopuntura e fisioterapia.
Oggi per altro, come già anche ieri, e sicuramente domani, mi tocca un lavoro di sterro ed assestamento di una piccola scarpata: picco, pala e vanga…La mazza a seguire, per impiantare sassi e picchetti vari a consolidarla…

Conclusione: la mia piccola muraglia cinese non è oggi opera sulla terra visibile dalla Luna (come in realtà è accertato non lo sia neppure la Grande Muraglia eretta a suo tempo per proteggere il Celeste Impero dalle invasioni Mongole), anche perché ben mimetizzata da una folta, magnifica siepe di cotone astra.
Ma resta pur sempre per me la mia piccola grande impresa, sfida ispirata e costantemente supportata nel compierla, dal ricordo di “Gilliat…il mostro”
(v. il racconto su blog “nonnorso”………………).

The lonely dolphin
































































































































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